«Il randagismo è un problema rilevante, soprattutto in alcune regioni del centro-sud, anche a causa del ritardato recepimento della 281 e della disomogenea applicazione delle norme. I tempi sono maturi per una possibile revisione della Legge, concordata con tutti gli attori coinvolti, che preveda anche l’introduzione di parametri univoci e omogenei nella valutazione della tutela del benessere animale nei canili-rifugi». Così il ministro della Salute Beatrice Lorenzin in un’intervista a Repubblica sul tema del randagismo. Lorenzin annuncia l’intenzione di convocare un tavolo di coordinamento con le organizzazioni dei medici veterinari e tutte le categorie interessate per affrontare congiuntamente il problema e valutare i termini di un aggiornamento della legge 281/91. Il ministro ricorda inoltre che lo strumento fondamentale per la lotta al randagismo e per il possesso responsabile degli animali d’affezione è l’Anagrafe con l’identificazione e la registrazione.
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Intervista al ministro della Salute sul fenomeno del randagismo, il business dei canili, le adozioni non sempre tracciabili all’estero, i traffici illegali, il rispetto delle regole negli allevamenti da reddito
di Margherita D’Amico. Si dice che Beatrice Lorenzin non coltivi personale tenerezza verso gli animali, ma al riguardo il ministro della Salute preferisce non puntalizzare rendendosi invece disponibile ad approfondire per i lettori di Repubblica alcune questioni circa la tutela delle altre specie affidata al suo dicastero. Il randagismo continua a essere in Italia una piaga a dispetto della legge quadro 281/91 che richiede misure preventive, prima fra tutte la sterilizzazione. A lungo lo Stato ha stanziato milioni di euro l’anno (ridotti oggi a 300mila) ma le inadempienze della sanità pubblica risultano gravi. “Il randagismo è un problema rilevante, soprattutto in alcune regioni del centro-sud, anche a causa del ritardato recepimento della legge quadro n. 281/91 in materia di animali d’affezione e prevenzione del randagismo e della disomogenea applicazione delle norme vigenti”.
Tra gli obiettivi prioritari della legge quadro vi è in effetti il controllo delle nascite e con la Legge finanziaria del 2007 è stato stabilito di destinare il 60% del fondo stanziato per la lotta al randagismo alle sterilizzazioni degli animali senza proprietario. Altro strumento fondamentale per la lotta al randagismo e per il possesso responsabile degli animali d’affezione è l’Anagrafe; identificazione e registrazione in un database di tali animali (valido solo per i cani ndr) per evitarne l’abbandono e garantirne la tracciabilità”.
Sì, ma le Asl si sono sottratte al compito di sterilizzare a tappeto, né si ha notizia di valide politiche educative presso i privati. Come intende contrastare il randagismo?
“Convocando un tavolo di coordinamento con le organizzazioni dei medici veterinari e tutte le categorie interessate per affrontare congiuntamente il problema e valutare i termini di un aggiornamento della legge 281/91. Comunque, Il Ministero della Salute in questi ultimi anni ha promosso campagne contro l’abbandono e iniziative volte a favorire il possesso responsabile degli animali e la prevenzione dei reati contro gli stessi, ha inoltre sostenuto progetti ed eventi organizzati a livello locale da Enti pubblici e Associazioni protezionistiche aventi analoghe finalità. Tali attività sono ancora tra le priorità della Direzione generale competente che attraverso i suoi uffici e dal 2010 mediante un’apposita Unità Operativa, monitora il fenomeno del randagismo su tutto il territorio nazionale”.
Nei mesi scorsi, associazioni e privati segnalavano con preoccupazione un fermo della suddetta Unità. Perché?
“Smentisco assolutamente che la task force abbia interrotto la propria attività. Questa unità operativa ha supplito in una fase di emergenza alle carenze di alcune autorità locali, ma occorre in tempi rapidi uscire dalla fase di emergenza e promuovere le capacità delle autorità locali di affrontare e governare il problema”.
Sul fronte internazionale, la nostra 281/91 è fra le poche leggi che vietino di sopprimere i randagi e cederli alla vivisezione. S’intendeva che i canili fossero meri luoghi di passaggio, non è andata così. La norma indica chi debba occuparsi dei randagi (comuni, Asl, associazioni, gestori di strutture) ma non come.
“Ribadisco, i tempi sono maturi per una possibile revisione della Legge, concordata con tutti gli attori coinvolti, che preveda anche l’introduzione di parametri univoci e omogenei nella valutazione della tutela del benessere animale nei canili/rifugi”.
Molti comuni cedono i randagi ad associazioni che li trasferiscono nel nord Europa, lì verrebbero adottati a migliaia. Come verificarne la sorte, in paesi senza anagrafe canina, le cui diverse leggi prevedono la soppressione dei randagi o ne legittimano la cessione ai test di laboratorio?
“La problematica è nota da molti anni, basti pensare che già nel 1993 il Ministro Maria Pia Garavaglia diramò la circolare n.33 con la quale venivano date indicazioni utili a contrastare tale fenomeno”.
La Garavaglia indicava di “non cedere cani conto terzi ma direttamente all’interessato”, contrariamente a quanto spesso avviene.
“Ultimamente si è assistito a un incremento delle segnalazioni relative alle adozioni internazionali, in particolare verso Paesi quali Germania, Austria, Svizzera e Svezia. Di conseguenza, abbiamo deciso di coinvolgere le regioni maggiormente interessate dal fenomeno e le Associazioni di protezione degli animali, per definire una procedura operativa volta a garantire il benessere e la tracciabilità di questi animali. Questa procedura è adottata in via sperimentale nelle regioni Lazio e Umbria da circa un anno e mezzo”.
La procedura non è operativa, mancano le commissioni incaricate: un funzionario del comune di partenza, un veterinario Asl e un animalista dovrebbero girare l’Europa controllando a campione cani sconosciuti: a spese di chi, con quale attendibilità?
“L’applicazione uniforme di questo approccio su tutto il territorio nazionale e la raccolta di dati per monitorare il fenomeno presuppongono l’adesione di tutte le regioni e un flusso informativo centralizzato al Ministero. La condivisione con le altre autorità regionali è quindi necessaria e in tal senso mi farò promotrice delle iniziative necessarie per rendere inderogabili tali attività, al fine di tenere sotto controllo le movimentazioni e assicurare la piena tracciabilità degli animali”.
La gestione dei canili motiva ricchi business. Non di rado gli appalti per le convenzioni con i comuni vengono assegnati al massimo ribasso.
“Premetto che la materia della salute e del benessere degli animali d’affezione è di stretta competenza regionale, mentre i bandi di gara per la gestione dei canili sono regolamentati dalle norme sugli appalti pubblici. Tuttavia in questi casi, trattandosi di animali e quindi di esseri senzienti, già nel 2001 con la Circolare n. 5 il Ministero della salute aveva chiarito che il ‘criterio dell’economicità che legittima la scelta della concessione della gestione dei canili da parte dei comuni non deve essere valutato unicamente come criterio di vantaggio economico per il comune ma deve essere inteso in riferimento all’art. 1 della legge 281/91’. Deve quindi tener conto della tutela degli animali”.
Invece vige una dannosa confusione fra gestione di associazioni animaliste vere o sedicenti tali, e privati.
“Il Ministero è intervenuto più volte per far rispettare i criteri fissati dalla circolare, richiamando i comuni che attribuiscono il servizio unicamente in base al minor prezzo senza sufficienti garanzie di benessere animale. In diverse circostanza le gare di appalto sono state riviste alla luce di quanto indicato dal Ministero della salute”.
Chi controlla quindi l’operato del controllore (Comuni-Asl)?
“I Comuni rimangono responsabili degli animali, anche quando trasferiti in un’altra regione. Sono pertanto obbligati a provvedere a regolari controlli, sia per verificare le condizioni di mantenimento e il rispetto delle condizioni previste dal capitolato d’appalto, che per sincerarsi dell’effettiva esistenza in vita degli animali all’interno delle strutture onde evitare di continuare a pagare con soldi pubblici le rette di mantenimento”.
Secondo associazioni protezionistiche l’Italia disattenderebbe molte regole europee pro animali negli allevamenti da reddito.
“Una simile affermazione desta quantomeno perplessità. E’ distante dalla realtà e non tiene conto degli ingenti sforzi del Servizio Veterinario pubblico e dalle aziende zootecniche per ottenere il pieno rispetto delle norme”.
La ong Compassion in World Farming segnala che se da noi 700mila scrofe sono in linea UE, oltre 10 milioni di suini all’ingrasso mancano dei dovuti arricchimenti ambientali e hanno la coda mozzata.
“Circa il livello di allineamento degli allevamenti suini nazionali alla normativa di riferimento (d. lgs.122/2011, atto di recepimento della direttiva 2008/120/CE), stante i dati in possesso del Ministero della Salute inoltrati dai Servizi veterinari regionali, praticamente la totalità degli allevamenti si è adeguata a quanto previsto”.
La normativa UE sulle ovaiole è del 1999, concedeva 13 anni per conformarsi: a inizio 2012 diversi stati membri erano ancora inadempienti, ma a fine anno rimanevano indietro solo Italia e Grecia.
“Le gabbie ‘fuori norma’ delle galline ovaiole dal 1° gennaio 2012 hanno visto diminuire progressivamente il loro numero sul territorio nazionale, giungendo in poco più di un anno e mezzo ad un valore pari a zero. Gli allevamenti di galline ovaiole di questo Paese infatti sono a norma dal mese di novembre 2013”.
Per aver rinviato al 2013 il termine di adeguamento, la Corte di Giustizia europea ci ha condannati.
“Il ritardo è derivato da un periodo di transizione che, progressivamente, dal giorno dell’entrata in vigore del divieto di utilizzo di gabbie “non modificate” ha visto adeguare gli impianti a quanto richiesto dalla normativa europea. Anche gli altri Stati membri dell’UE, peraltro, si sono trovati impreparati alla scadenza del 1° gennaio 2012, denunciando a vario grado di incidenza la presenza di gabbie non in regola”.
Ogni anno il Ministero della Salute sottoscrive parecchi permessi in deroga per test sugli animali senza anestesia: con quali criteri e motivazioni?
“Siamo particolarmente attenti alla concessione di simili autorizzazioni, pone come condizione essenziale la protezione degli animali utilizzati a fini scientifici e per questo compito si avvale dell’Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità per gli aspetti di valutazione scientifica. Le richieste sono attentamente esaminate in ordine all’indispensabilità dell’esperimento, alla mancanza di metodi alternativi e all’inutile duplicazione degli esperimenti stessi”.
Ma il Comitato nazionale incaricato di vigilare su un qualche rispetto delle cavie è composto solo di esponenti della sperimentazione animale: con quale credibilità?
“Tre R: Replacement, Reduction e Refinement, ovvero sostituzione con tecniche alternative, riduzione al minimo del numero degli animali impiegati e perfezionamento delle procedure per limitarne la sofferenza: l’applicazione rigorosa di questi tre criteri costituisce l’elemento centrale per valutare l’ammissibilità dei progetti presentati dai centri di ricerca”.
Si legge sul decreto che recepisce la Direttiva UE sulla sperimentazione animale: “informazioni sull’effettiva gravità delle procedure” non devono essere pubblicate “quando afferiscono ad interessi commerciali, industriali, nonché alla riservatezza delle persone fisiche e giuridiche”…
“Il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 26 che recepisce la direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati ai fini scientifici prevede il rafforzamento della protezione degli animali e ha come obiettivo finale la completa sostituzione di queste procedure attraverso la promozione e lo sviluppo di metodi alternativi”.
Appunto: altrove crescono gli investimenti sui metodi alternativi sostitutivi, considerati da tanti scienziati più attendibili, predittivi e moderni. Perciò lo scorso anno la Gran Bretagna ha stanziato 6,5 milioni di euro. L’Italia, invece, divide 500mila euro l’anno fra 10 istituti zooprofilattici.
“Il Decreto legislativo 26/2014 individua per lo sviluppo e la ricerca di nuovi metodi alternativi precise risorse, pari a 1 milione di euro/anno per il triennio 2014-2016, di cui la metà destinata agli Istituti Zooprofilattici sperimentali e l’altra metà alle Regioni e Province autonome per corsi di formazione e di aggiornamento agli operatori del settore”.
Trattasi del settore che utilizza animali, però, non certo quello delle alternative.
“Al conto si sommano le entrate derivanti dall’applicazione delle nuove sanzioni pecuniarie amministrative di spettanza statale. È opportuno precisare che il finanziamento per lo sviluppo di metodi alternativi citato per il Regno Unito, pari a 6,5 milioni di sterline, è per l’80 % erogato dal settore privato”.
Veramente l’istituto britannico NC3Rs, fondato sulle cosiddette 3R, riceve per la quasi totalità fondi governativi e solo in minima parte privati. Da noi le alternative non sono neppure inserite nei corsi di laurea. Perché il settore privato dovrebbe essere invogliato a investire?
“Il mio Ministero ha intrapreso l’individuazione e la designazione del Centro di referenza nazionale per i Metodi alternativi, benessere e cura degli animali da laboratorio presso l’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, la stretta collaborazione con il Laboratorio di referenza europeo EURL-ECVAM, sito a Ispra (Varese), l’individuazione e la nomina, in collaborazione con la Commissione UE, di laboratori nazionali che concorrono a costituire un network europeo denominato EU-NETVAL, disponibili a partecipare, a sviluppare o effettuare studi di validazione di metodi alternativi. A oggi sono stati nominati tre laboratori nazionali su un totale di 26 laboratori europei”.
Repubblica – 12 gennaio 2015