Con le pubblicazioni del mese di luglio (qui potete trovare quelle di maggio e giugno), continua la rassegna del Fatto Alimentare sulle sentenze definitive per reati alimentari. Un viaggio, senza alcun fine statistico, per scoprire come sono andati a finire alcuni procedimenti per crimini commessi nel settore alimentare. Ecco quelli più interessanti, ripresi dalla Rassegna normativa di diritto alimentare e legislazione veterinaria redatta da Sial Veneto.
Nel mese di luglio un gran numero di sentenze riguardano la cattiva conservazione degli alimenti negli esercizi commerciali e nella ristorazione. Spicca il caso di un esercizio del Nord Est dove sono stati rinvenuti formaggi, olive e altre conserve mantenute direttamente sotto il sole e invasi da parassiti, costati al proprietario una sanzione da 10 mila euro. Ancora più eclatante è il caso di un altro esercente che, trovato in possesso di alimenti in cattivo stato di conservazione, ormai secchi, o tenuti a temperature inadeguate, è stato condannato a una sanzione di ben 30 mila euro e 3 mesi di reclusione. A un ristoratore è andata meglio: trovato in possesso di ben 190 kg alimenti privi di indicazione di specie, data di congelamento e di scadenza, dell’involucro e in cattive condizioni igieniche, è stato sanzionato per 6 mila euro.
Di tutt’altra entità la sanzione inflitta a un ristoratore milanese per non aver dichiarato nel menu la presenza di alimenti surgelati, un comportamento che configura il reato di tentata frode in commercio. Nonostante la pena fosse di soli 200 euro, l’esercente ha fatto ricorso fino in Cassazione, dove la sanzione non solo è stata confermata, ma gli è stata inflitta un’ammenda aggiuntiva da 2 mila euro. Quando si dice oltre il danno la beffa.
La Salmonella è costata cara a un macellaio del casertano, che si è visto sanzionare per 10 mila euro dopo che il batterio è stato rinvenuto in salsicce fresche in vendita nella sua attività. Secondo le analisi, il microrganismo non sarebbe stato presente all’origine nella materia prima con cui sono stati realizzati i prodotti, che sarebbero stati contaminati secondariamente. In casi come questo si parla di “frode tossica”
Listeria monocyogenes è invece al centro di una curiosa disputa, scatenata da quattro tramezzini. In tre di essi, infatti, era stata rilevata una quantità di batteri ancora sotto la soglia di legge, ma che per precauzione aveva fatto scattare il ritiro volontario del prodotto dai banchi frigo. Sebbene non siano stati superati i limiti di legge, i tribunali hanno deciso di condannare l’azienda per messa in commercio di alimenti pericolosi, perché “tre unità oggetto di campionamento presentavano valori superiori a 10” ufc/g, un valore che non è fissato da alcuna normativa. Sulla base di questa considerazione, ma anche per aver eseguito i controlli previsti e per l’impossibilità di prevedere la contaminazione, la suprema corte ha annullato la condanna.
Un altro caso ha invece visto lo scontro tra un’azienda mangimistica e un allevatore di bovini per la morte di sette tori. Secondo l’allevatore sono stati proprio i mangimi dell’impresa a causare il decesso degli animali, oltre a gravi danni ad altri otto animali che hanno dovuto subire degli interventi. Una tesi sposata anche dai tribunali, che hanno riconosciuto il nesso causale tra la morte di sei dei bovini e il mangime, e a imporre all’azienda un risarcimento di 12 mila euro allo sfortunato allevatore.
da Il Fatto alimentare – 10 agosto 2017