In questi giorni i tavoli di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia sono carichi dei dossier in preparazione della manovra, in un cantiere dominato dalle parole d’ordine dei tagli fiscali e della riapertura di finestre “anticipate” per la pensione. Si tratta dei temi classici per una manovra “espansiva”, ma nelle prospettive della finanza pubblica si nasconde ancora una buona dose di austerità.
La si incontra alla voce «investimenti», ed è quindi tutt’altro che indifferente per le prospettive di crescita effettiva del reddito nazionale. Tradotta dal linguaggio dei conti, la «spesa in conto capitale» significa infatti infrastrutture, strade, edilizia, ma anche opere contro il dissesto idro-geologico e per il rinnovamento energetico, rinnovamento di strutture (per esempio sanitarie) e investimenti per la valorizzazione di immobili.
Il «pareggio»
Schiacciata fra tagli, patti di stabilità ed esigenze politiche che spesso guardano altrove, questa spesa è in flessione da anni, ma a partire dal 2016 rischia grosso per l’entrata a regime del pacchetto di regole sul «pareggio di bilancio», cioè l’effetto più diretto prodotto sulla nostra finanza pubblica dall’ondata dell’austerity in salsa europea. La loro nascita risale infatti al 2012, l’anno dell’Imu, della riforma Fornero e del primo tentativo strutturato di spending review: ad aprile fu riscritto l’articolo 81 della Costituzione nel nome del pareggio del bilancio, e a dicembre finì in modo trionfale (solo quattro i voti contrari nell’ultimo passaggio al Senato) l’iter di approvazione della legge attuativa, la 243/2012, con la previsione di farla partire a regime dal 1° gennaio 2016.
A livello nazionale è stato appena rinviato di un altro anno, al 2018, proprio in nome della “flessibilità” contrattata con Bruxelles per dare più spinta alla ripresa, ma per i conti di Regioni ed enti locali l’appuntamento è rimasto in agenda per l’anno prossimo e porta con sé parecchie conseguenze: una complessa griglia di regole ai saldi di bilancio, e una stretta al debito che impedisce ai territori di generare nuovo passivo in misura superiore a quello rimborsato nello stesso periodo.
Si tratta di una regola aurea per un Paese super-indebitato come il nostro, ma bisogna ricordare che il 92% del debito pubblico è scritto nei bilanci dell’amministrazione centrale: la nuova austerità, per ora, si concentrerebbe quindi solo sull’altro 8%, che pesa sui conti delle Regioni e, in misura minore, di Comuni e Province.
Il rischio, evocato in modo corale da amministratori di ogni colore politico, è il «blocco assoluto degli investimenti», ma sarebbe sbagliato liquidare la questione come la solita cantilena anti-tagli: anche al Governo la preoccupazione è palpabile, soprattutto da parte dei tecnici, ed è intenso il lavorio per provare a smussare un po’ la novità in chiave attuativa.
Regioni al palo
Con quali esiti al momento non si sa, perché la via maestra sarebbe quella di intervenire direttamente sulla legge con cui nel 2012 si è deciso di attuare l’articolo 81 della Costituzione riscritto in chiave rigorista: per ritoccare questa legge “rafforzata”, però, servirebbe la maggioranza assoluta in entrambe le Camere, un obiettivo praticamente irraggiungibile mentre si scaldano i motori della manovra.
Quali saranno le conseguenze? Per calcolare numeri precisi è presto, ma molto si può già leggere nei documenti ufficiali di finanza pubblica. Il primo è il Documento di economia e finanza (Def) appena aggiornato dal Governo, che nei prossimi quattro anni prevede una flessione del 10,4% della spesa in conto capitale messa in campo da tutta la Pubblica amministrazione, centrale e locale.
Ma le cifre più allarmanti si leggono quando si stringe l’inquadratura sui soli conti regionali: il prossimo anno, stando ai bilanci di previsione 2015-2017 delle Regioni, la spesa in conto capitale nei territori a Statuto ordinario supererà di qualche spicciolo i 4,5 miliardi di euro, per scendere ancora di un miliardo abbondante nel 2017. Il confronto con le cifre previste per quest’anno rischia in qualche caso di essere fuorviante, perché più di una Regione ha caricato sul 2015 tutta la possibilità teorica di investimento prima dell’arrivo delle nuove regole, ben sapendo che sarebbe riuscita a far partire davvero solo una quota più o meno leggera di questo libro dei sogni. Resta il fatto che con i 16-20 miliardi medi all’anno impegnati finora dalle sole Regioni a Statuto ordinario, gli investimenti adombrati per il futuro prossimo dai Governatori sono a livelli di miseria.
«È un disastro, che può costarci anche oltre un punto di Pil» taglia corto Massimo Garavaglia, assessore al Bilancio della Lombardia e già attivissimo vicepresidente della commissione Bilancio al Senato per la Lega Nord. Ma i toni non cambiano quando si arriva in aree più “governative”: «Senza gradualità nell’applicazione delle nuove regole si brucia ogni possibilità di investimento. Le Regioni accettano la sfida dei sacrifici, noi per esempio abbiamo ridotto da 16 a 3 le Asl e tagliato drasticamente organici dirigenziali e non, ma bisogna poter reinvestire per lo sviluppo».
Il fronte dei Comuni
Per le stesse ragioni, il clima è teso anche nei Comuni, che l’anno prossimo vorrebbero festeggiare l’addio dopo oltre 10 anni, promesso dal Governo, al Patto di stabilità. Qui il quadro è ancora più articolato, perché secondo le prime stime la manovra potrebbe rivelarsi nel complesso espansiva, ma con enormi problemi di distribuzione.
Senza correttivi, i problemi peggiori arriverebbero ai Comuni con i conti più in ordine, con poco debito da rimborsare (per liberare nuovi mutui) e l’avanzo, cioè il “risparmio” dagli anni precedenti, ancora bloccato.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 28 settembre 2015