Per i licenziamenti disciplinari si va verso la limitazione della reintegra ai soli casi di insussistenza del fatto materiale particolarmente grave contestato al lavoratore. Mentre si profila un graduale allungamento della durata dell’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) fino a 2 anni per alcune categorie.
Queste novità sono oggetto di riflessione nei tavoli tecnici del governo, dove si sta lavorando ai primi due decreti legislativi attuativi della legge delega sul Jobs Act. Il primo Dlgs sul contratto a tutele crescenti verrà approvato dal Consiglio dei ministri di metà dicembre – l’orientamento per ora è di approvarlo dopo lo sciopero generale di Cgil e Uil del 12 dicembre – poi toccherà al Dlgs sull’Aspi. La legge delega ha modificato la disciplina della reintegra per le nuove assunzioni con contratto a tutele crescenti, stabilendo per i licenziamenti economici illegittimi il pagamento di un indennizzo al posto della reintegra che resta per i licenziamenti nulli e discriminatori e per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Nell’individuazione delle fattispecie i tecnici di Palazzo Chigi e del ministero del Lavoro stanno approfondendo un’ipotesi principale, che limiterebbe il reintegro ai soli casi di insussistenza della condotta materiale per fatti particolarmente gravi. Cioè: se si accusa un dipendente di un furto, e viene licenziato, e invece se si dimostra che non è stato rubato nulla, scatterebbe la tutela reale del reintegro in azienda.
Questa soluzione potrebbe eliminare la reintegra nelle ipotesi di una sproporzione tra l’infrazione contestata e la sanzione comminata, che oggi «è la questione più incerta davanti ai giudici», sottolinea Arturo Maresca, ordinario di diritto del lavoro alla Sapienza di Roma. «Se il furto è dimostrato, ma è di modico valore, per esempio 10 euro, attualmente può capitare che la magistratura annulli il licenziamento e condanni alla reintegra – continua Maresca -Limitando la tutela reale alla sola insussistenza della condotta materiale, invece, scatterebbe solo l’indennizzo».
La discrezionalità dei giudici non verrebbe annullata del tutto. Però «considerato il modo in cui una parte dei giudici interpreta il concetto di insussistenza del fatto materiale contestato, non può essere questa una delimitazione della fattispecie cui applicare la reintegrazione», aggiunge Pietro Ichino (Sc), professore di diritto del lavoro alla Statale di Milano. Pertanto, se questa sarà la scelta, continua Ichino, «essa non potrà che essere controbilanciata dalla facoltà bilaterale dell’opting out», consentendo anche al datore di lavoro di scegliere l’indennizzo in caso di condanna al reintegro, come avviene in altri Paesi Ue, come Spagna e Germania. L’eventuale riconoscimento di questa “opzione” sarebbe piuttosto oneroso per le imprese. Si ipotizza che alle 24 mensilità massime di indennizzo si aggiunga un risarcimento del danno che potrebbe oscillare dalle 3 alle 12 mensilità (si arriverebbe a 36 mensilità, nei casi limite). Un ristoro economico così elevato (che sostituisce la condanna al reintegro) potrebbe essere sostenuto dalle grandi imprese; per quelle piccole il costo sarebbe insostenibile. Oggi, invece, l’opzione è concessa al solo lavoratore che, se licenziato illegittimamente, può optare per un ristoro economico di 15 mensilità al posto della reintegra.
Altro punto su cui si sta ragionando ai tavoli tecnici è l’eliminazione del riferimento ai contratti collettivi nazionali. Oggi nei licenziamenti disciplinari la reintegra scatta quando il fatto non sussiste o è punito con una sanzione conservativa nei Ccnl. Ma le formulazioni esistenti nei contratti, secondo quanto sottolineano alcuni giuslavoristi come Michele Tiraboschi (ordinario di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio) sono spesso confuse, e in questi casi la discrezionalità dei giudici regna sovrana. L’ipotesi allo studio è che con la soppressione del riferimento ai Ccnl un’altra incertezza verrebbe meno.
L’altra novità riguarda il secondo Dlgs in preparazione, con l’ipotesi del progressivo allungamento a 24 mesi della durata dell’Aspi, il sussidio per i lavoratori in disoccupazione involontaria. Sono in corso simulazioni per estendere la durata ad alcune categorie. La legge Fornero ha stabilito per il 2014 la durata di 8 mesi per chi ha meno di 50 anni (10 mesi nel 2015), 12 mesi per chi ha da 50 a meno di 55 anni, e 14 mesi dai 55 anni (16 mesi nel 2015).
«Il fine delle riforma – spiega il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei – è dare centralità al lavoro stabile cambiando i contratti e riducendo i precari, anche estendendo gli ammortizzatori». L’ipotesi di un allungamento dell’Aspi è salutato positivamente dalla minoranza Pd: «Da tempo spingiamo in questa direzione – spiega il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano – ma si consolida la nostra richiesta di aumentare la dote per gli ammortizzatori sociali nella legge di Stabilità: per il 2015 mancano 400 milioni per arrivare a 3,3 miliardi complessivi raggiungendo così gli 1,6 miliardi aggiuntivi annunciati da Renzi».
Il Sole 24 ore – 6 dicembre 2014