Se la prende con i «professionisti della tartina», non i gourmet, ma chi salta da un convegno all’altro «senza trovare soluzioni». Si schiera al fianco dell’Italia «che si sveglia presto al mattino e si spezza la schiena». E spiega di avere «l’assoluta certezza» che i suoi mille giorni «siano l’ultima chance» per il Paese.
Matteo Renzi lancia il suo guanto di sfida, l’ennesimo, in un tour de force che comincia sugli scranni di Montecitorio, prosegue a Palazzo Madama e si conclude al Nazareno, nella sede del Pd. Con un affondo, anche su lavoro e giustizia, e una frenata: prima fa capire che se non si riuscisse a fare le riforme, ci sarebbe il voto anticipato. Poi precisa di non aver mai detto di voler andare alle elezioni.
Il governo, spiega, punta a «capovolgere la storia di questa legislatura e rimettere in pista l’Italia». Le intenzioni sono chiare: «L’Italia ha interrotto la caduta ma questo non è sufficiente. Non ci basterà la crescita di qualche decimale: non siamo qui per mettere il segno da meno a più virgola, siamo qui per lasciare il segno in modo indelebile».
Con i mille giorni, spiega Renzi, si «imposta un ragionamento che ci porta al 2018». Però «a condizione di mettere in campo le riforme necessarie come quella della Pubblica amministrazione, di fisco, lavoro, giustizia, diritti civili, scuola, riforme istituzionali ed elettorali». Altrimenti, l’orizzonte diventa quello delle elezioni anticipate. «Andare a votare dal punto di vista utilitaristico potrebbe essere una buona idea», spiega, e del resto il «confronto con gli elettori non ci spaventa». Però il Parlamento deve «dimostrare di avere la capacità di trovare soluzioni». In questo contesto, si approva «subito» la nuova legge elettorale. Ma «non per andare a elezioni», è una questione di «dignità delle istituzioni». Più tardi, ribadirà di non aver voluto indicare la strada del voto anticipato.
Il mondo del lavoro, spiega, oggi è «basato sull’apartheid». Quindi, parlando anche alla sinistra del suo partito, Renzi promette che al termine dei mille giorni «il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi», che «divide i cittadini in cittadini di serie A e di serie B. Se sei una partita Iva non conti niente. Se sei un lavoratore di un’azienda sotto i 15 dipendenti, non hai alcune garanzie. Se stai sopra sì». Ovvero, il tema dell’articolo 18, che provoca subito una sollevazione nella sinistra del partito e nei sindacati. Se necessario, annuncia, si farà ricorso a un decreto legge: «Se saremo nelle convinzioni di avere tempi serrati, rispetteremo il lavoro del Parlamento, altrimenti siamo pronti anche a intervenire con misure di urgenza».
Poi la giustizia. Il premier, come già aveva fatto nei giorni scorsi, difende i vertici Eni finiti sotto inchiesta: «Non consentiamo a un avviso di garanzia citofonato sui giornali di cambiare la politica aziendale di un Paese». Perché «arrivare a sentenza preventiva sulla base dell’iscrizione nel registro degli indagati è un atto di barbarie che abbiamo sempre condannato in tutte le sedi». Per Renzi non ci sono dubbi: «Non consentiamo agli scoop di mettere in crisi dei posti di lavoro e di cambiare le politiche aziendali. Se questa è una svolta prendetevi la svolta, ma è un dato di fatto per rendere l’Italia un Paese civile». Poi Renzi ribadisce: «Non è la sospensione delle ferie del magistrato il problema, ma non c’è nessuno qui fuori che pensi sia giusto che ci siano 45 giorni di sospensione feriale». Replica dell’Anm: «Ferie? Servono riforme vere, non slogan». E ancora: «Respingiamo con forza l’idea che la magistratura voglia interferire nelle politiche aziendali».
In serata, Renzi alla direzione lancia un avvertimento alla Commissione europea: «Il Pse deve chiedere alla Commissione chiarezza sugli obiettivi. Per esempio, «questi 300 miliardi di euro di investimenti dove sono?». Un accenno anche alle proteste delle forze di polizia contro il blocco degli stipendi: «Sono forme di proteste indebite ».
Alessandro Trocino – Il Corriere della Sera – 17 settembre 2014