Dopo due anni e quattro giorni, sei letture e 173 sedute complessive del Parlamento l’Aula di Montecitorio ha dato ieri l’ultimo e definitivo sì alla riforma costituzionale che supera il bicameralismo perfetto e riforma il Titolo V. Senza dubbio una «giornata storica» – come ribadisce Matteo Renzi da Teheran – se non altro perché arrivano a compimento vari tentativi falliti negli ultimi 20 anni, dalla Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema a quella “bozza Violante” approvata in commissione alla Camera nel 2007 da tutto il centrosinistra. Eppure quei banchi vuoti, con tutte le opposizioni fuori dall’Aula per protesta, pesano.
I voti favorevoli alla fine sono 361 sì, i no solo 7 e 2 gli astenuti. Pesano, quei banchi vuoti, soprattutto se si tiene conto che questa “avventura” è iniziata più di due anni fa con il Patto del Nazareno stretto tra Renzi e Silvio Berlusconi e che proprio dall’ex Cavaliere sono arrivate ieri sera le parole più dure: «Una riforma sbagliata e pericolosa. Ci batteremo al referendum per difendere la Repubblica dalla voglia di potere di un premier arrogante e mai eletto».
«È una giornata storica in cui la politica dimostra di essere credibile – sono le parole di Renzi da Teheran -. Ora noi chiederemo il referendum. Il Paese più instabile della Ue è diventato il Paese più stabile, e pochi 2 anni fa ci avrebbero scommesso. Ma l’Italia a volte sa essere sorprendente». Abolizione del Senato elettivo e istituzione di un Senato delle Regioni di soli 100 componenti, fine del bicameralismo perfetto con conseguente snellimento dell’iter delle leggi, abolizione delle province e del Cnel, riordino delle competenze tra Stato e Regioni con il ritorno in capo allo Stato di molte materie strategiche per lo sviluppo e la programmazione economica del Paese. Sono temi di cui si discute da anni e raccomandati dai “saggi” nominati dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano e dal premier Enrico Letta all’inizio di questa travagliata legislatura. Eppure, il giorno in cui si chiude il faticoso percorso tutti sono contro. Anche in parte la minoranza del Pd, che pure ha votato sì ieri alla Camera. «Il no al referendum sulle riforme – commenta il premier – è inspiegabile con argomenti di merito. Si spiega solo con l’odio verso di me. Nel merito non possono esserci argomenti: come si fa a dire no al taglio dei parlamentari? o alla chiarezza nei rapporti tra Stato e Regioni? alla riduzione del numero dei politici e dei loro stipendi?». E infatti, si dice sicuro Renzi, «anche la sinistra del Pd sarà tutta sul fronte del sì».
La sinistra del Pd, appunto. Ieri una nota congiunta di Gianni Cuperlo, Roberto Speranza e Sergio Lo Giudice ribadisce in realtà tutte le perplessità e le critiche ed elenca alcune pesanti condizioni per dare il sostegno al referendum confermativo che si terrà ad ottobre. Da una parte «è importante che il Parlamento si impegni ad affrontare un pacchetto di misure capaci di offrire risposte a dubbi e criticità sollevate: dalla nuova normativa sui referendum al quadro di tutele e garanzie per le future minoranze, anche attraverso la modifica dei regolamenti, fino alla legge ordinaria che disciplinerà l’elezione dei senatori»; dall’altra va ritoccato niente meno che l’Italicum, già legge dello Stato e che entrerà in vigore il 1° luglio prossimo: «Legge da rivedere nel capitolo su consistenza e modalità di attribuzione del premio di maggioranza, sul nodo dei capolista plurimi a rischio di costituzionalità e su quelli bloccati. D’altronde è in corso una raccolta di firme per i referendum che chiedono di modificare l’Italicum…».
Quello che la minoranza contesta, nella preoccupazione di perdere definitivamente il rapporto con la sinistra esterna al Pd, è soprattutto l’eccessiva personalizzazione del referendum d’autunno («se perdo vado a casa», ripete Renzi). E se l’Italicum, come continuano a ribadire da Palazzo Chigi e da Largo del Nazareno, non dovesse essere ritoccato restando dunque il premio alla lista e non alla coalizione? «Io sull’Italicum mi sono dimesso da capogruppo della Camera – ricorda Speranza -. Su questo non scherzo, come credo di aver dimostrato». In realtà sono in molti nella minoranza del Pd a credere (o sperare) che dopo i ballottaggi delle prossime comunali del 5 giugno sarà lo stesso Renzi a voler cambiare l’Italicum. Il che significa di fatto scommettere sulla sconfitta dei candidati del Pd nelle grandi città. Con questo clima non stupisce che Renzi stia pensando, per la lunga campagna referendaria in vista del voto d’autunno, di contare più sui comitati “spontanei” per il sì che sulla rete territoriale del suo partito.
Emilia Patta – Il Sole 24 Ore – 13 aprile 2016