«Togliamo con pazienza il sasso dai binari del Paese». Matteo Renzi ripete di non essere preoccupato («non credo che questo Paese sia nelle mani di una minoranza che vuole fare ostruzionismo») ma vuole imprimere un’ultima accelerazione alle riforme. Da oggi a Palazzo Madama si comincia con le prime votazioni sul disegno di legge costituzionale di riforma del Senato.
Il testo è già stato approvato dalla commissione Affari costituzionali, in una versione modificata sostanzialmente rispetto a quella varata dal governo. E ora da più parti si chiedono ulteriori modifiche. Ma l’esecutivo vuole chiudere in fretta: l’obiettivo massimo è finire entro la fine di luglio, ma sarebbe comunque considerato un buon risultato il varo entro la pausa estiva, prima della settimana della Ferragosto.
Le resistenze sono tante e si sostanziano in un grande numero di emendamenti, ben 7.800, 5.900 dei quali di Sinistra e Libertà. Ma non è solo l’ostruzionismo dell’opposizione (Sel, ma anche Lega e M5S) a preoccupare. Dentro i principali partiti ci sono esponenti che hanno chiaramente espresso il loro dissenso su alcuni punti chiave della riforma, a cominciare dall’elettività del Senato. Eppure il patto tra Partito democratico e Forza Italia, rafforzato anche dall’assoluzione di Silvio Berlusconi, pare molto solido. Il rinnovato slancio del leader di Forza Italia avrebbe fatto rientrare una parte della protesta interna e i dissidenti sarebbero scesi da 14 a 10.
Il ministro Maria Elena Boschi non vede «grandi margini di trattativa sulle modifiche richieste». I punti fondamentali non dovrebbero essere toccati, compresa la (non) elettività dei senatori e l’immunità. Il che non vuol dire che non ci possano essere altri ritocchi, anche significativi. Per esempio, l’accordo pare più vicino su tre punti.
Il primo è quello dell’elezione del capo dello Stato. Ci sono margini perché possa essere discusso l’emendamento del democratico Miguel Gotor (secondo firmatario Pier Ferdinando Casini) che estende la platea dei grandi elettori ai 73 parlamentari europei, aumentando le garanzie. In più la platea si spalmerebbe in diversi momenti elettorali, evitando il rischio del «voto emotivo», legato a un solo turno. L’emendamento è firmato da 83 senatori, 60 dei quali del Pd.
Altro punto delicato, che potrebbe essere toccato, è quello che riguarda le firme necessarie per proporre un referendum abrogativo: la modifica dell’articolo 75 le ha fatte salire da 500 mila a 800 mila. Aumento giustificato dall’incremento della popolazione, rispetto al 1945, ma criticato da più parti. Questa soglia potrebbe scendere ora a 700 o 750 mila. Mentre rimarrebbe invariato il «quorum mobile»: il referendum sarebbe valido con la metà più uno dei votanti delle ultime elezioni (considerando il 70 per cento, sarebbe il 35 più uno, riducendo così il potere di veto degli astensionisti).
Infine, un tema caro al Nuovo centrodestra, cioè la riduzione del potere di veto del Senato sulle leggi di bilancio.
Renzi non vuole freni alle riforme: «Il regolamento del Senato parla chiaro e credo che ci siano le condizioni per un intervento che rispetti le regole e consenta un dibattito serio». Nessun autoritarismo, perché è improbabile che venga usata la cosiddetta «ghigliottina» nelle prime due settimane, con sedute che arriveranno fino alle 22. Ma dopo i 15 giorni, è possibile che la presidenza del Senato accetti un contingentamento dei tempi.
Si comincia stamattina con gli ultimi interventi della discussione, le repliche dei relatori e del ministro Boschi. Dal vicecapogruppo Claudio Martini si attendono aperture sul Titolo V, che potrebbero far rientrare la Lega tra i favorevoli alle riforme.
Alessandro Trocino – Corriere della Sera – 21 luglio 2014