Roberto Giovannini. In queste ore i leader di Cgil-Cisl-Uil sembrano convinti che l’appuntamento di martedì a Palazzo Chigi sarà un’operazione mediatica (da un lato) e ad uso politico interno al Partito democratico (dall’altro). Ovvero, Renzi vuole far vedere che è «dialogante», ma senza concedere nulla.
Anzi: i temi anticipati per il tavolo annunciato personalmente per martedì dal presidente del Consiglio Matteo Renzi non solo sono lontani dal «cuore» – cioè la riforma del mercato del lavoro (comprese le regole sui licenziamenti) e la Legge di Stabilità – ma sembrano studiati per provocare una rottura tra governo e Cgil-Cisl-Uil.
Fino a ieri sera nelle sedi dei sindacati non era arrivata nessuna convocazione per la Sala Verde («riaperta») di Palazzo Chigi. Nessuna convocazione e neanche un ordine del giorno formale per l’incontro. A quel che si sa, al tavolo governo e sindacati dovrebbero parlare di materie importanti, anche se non di particolare attualità, come la rappresentanza, la contrattazione decentrata e il salario minimo legale. Camusso, Furlan e Angeletti, mai ascoltati dal governo, e semmai coperti sistematicamente di critiche e improperi, però vorrebbero dire la loro anche su altro. Uno stato d’animo che paradossalmente è spiegato da un sindacalista come Maurizio Landini, poco amato dai tre segretari generali: «Bisogna capire se è una convocazione vera che voglia avviare un confronto e una discussione su tutto – ha detto ieri il numero uno della Fiom – oppure è una convocazione per dire “ho sentito anche i sindacati”».
Viste le premesse, la sensazione è che martedì ci sarà una nuova puntata di uno spettacolo già visto. Con i leader delle tre confederazioni – che diranno «no» alle nuove richieste di Renzi – accusati di essere ferri vecchi passatisti e conservatori. Alla Direzione del Pd Renzi ha lanciato «tre sfide» al sindacato, su rappresentanza contrattazione e salario minimo; ma le proposte che Palazzo Chigi ha nel cassetto sono allo stato inaccettabili per Cgil-Cisl-Uil. Anche perché, a quanto si apprende, sono soluzioni sostanzialmente ispirate da un documento presentato nel maggio scorso da Confindustria. Quel «Proposte per il mercato del lavoro e per la contrattazione», la cui lettura ha convinto Renzi ad affossare l’articolo 18.
Partiamo dalla rappresentanza. Ai tempi delle primarie Renzi – anche per inserire un cuneo tra Susanna Camusso e Maurizio Landini – propose una legge per consentire alle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro (sulla base degli iscritti e dei voti ricevuti) una rappresentanza proporzionale al loro consenso. Ma secondo i bene informati, la legge che ha in mente oggi il premier non è quella che piace a Landini, ma quella che sostiene l’ad di Fca Sergio Marchionne: avranno diritto alla rappresentanza solo i sindacati che firmano i contratti nazionali o aziendali.
Il secondo punto è una ulteriore riforma della contrattazione. Va svuotato il contratto nazionale, salario e regole vanno fissate a livello aziendale. I contratti aziendali devono poter derogare sempre più a quanto stabilito dal contratto nazionale o dalle leggi. E infine, le aziende possono scegliere di non pagare gli aumenti dei contratti nazionali. Troppo perfino per Cisl e Uil, più disponibili di norma su questi temi.
Infine, il salario minimo legale. Oggi il salario minimo per l’80% del mondo del lavoro è stabilito dai minimi retributivi indicati nei contratti. Ovviamente, sono tagliati fuori da questa tutela i lavoratori con contratti più precari. L’intenzione del governo sarebbe quella di stabilire un salario minimo legale orario uguale per tutti, sotto il quale non si possa scendere: sarà un guadagno per i precari, e uno svantaggio per chi è contrattualizzato.
La Stampa – 5 ottobre 2014