La prima questione, in soldoni, sarebbe questa: un decreto del Ministero ha fissato a circa 50 euro il compenso in più spettante per un docente universitario che si reca a tenere corsi in sedi decentrate rispetto a quella principale dell’ateneo.
Quindi i docenti di Padova hanno deciso che loro in giro per il Veneto non ci vanno più. Morale: l’Università ha deciso di chiudere le sedi periferiche di Conegliano, Feltre, Montecchio Precalcino e Portogruaro, che sfornano 225 infermieri. Sono insorti tutti, e il caso è stato portato d’urgenza nella commissione “Sanità” guidata dal presidente Leonardo Padrin. Sono tutti contrari alla decisione dell’Università, dovuta come detto alla non disponibilità dei docenti: Ulss, enti locali, coordinamento veneto Ipasvi degli infermieri. Luigino Schiavon, presidente Ipasvi, ha spiegato che «le due università di Padova e di Verona autorizzano 1400 posti di formazione l’anno, circa 800 in meno rispetto al fabbisogno reale. E con la chiusura delle 4 scuole periferiche, il Veneto perderà altri 225 futuri infermieri». La commissione ha incaricato l’assessore Luca Coletto di «attivare un tavolo di confronto tra Regione e Università venete – dice una nota – per pianificare il fabbisogno formativo di nuovi infermieri, in coerenza con le indicazioni del nuovo Piano sociosanitario e lo sviluppo dell’assistenza territoriale, e per fare pressioni sul Ministero di università-ricerca perché non penalizzi le sedi periferiche con tempi e standard di accreditamento più rigidi di quelli richiesti alle sedi universitarie».
MEDICI DI BASE: È ROTTURA. Intanto si è aperto un altro fronte, quello delle cosiddette “Aft-aggregazioni funzionali territoriali”: dovrebbero organizzare i medici di base in “distretti” in modo che, organizzandosi tra loro in un’unica sede oppure in studi diversi ma collegati tra loro, siano in grado di offrire ai loro assistiti la possibilità di raggiungere un medico -il proprio, o un suo collega della stessa Aft – dalla mattina alla sera. I sindacati regionali Fimmg, Fimp, Snami e Smi hanno annunciato pubblicamente che sono saltate le trattative con la Regione per la mancata approvazione di due delibere che avrebbero dovuto garantire loro soldi in due forme. Primo, un contributo per gli investimenti informatici perché diversi medici posti in sedi diverse (da quanto si è capito, molti si organizzerebbero così, senza traslocare in un unico ambulatorio) possano avere accesso alla cartella medica del singolo paziente. Secondo, contributi per attività tipo screening e cura di malattie croniche. In tutto sarebbero 15 milioni (nel 2011 ne furono promessi 21, ora ridotti), ma il guaio è che per tirare fuori quei soldi dal budget della sanità veneta bisogna sottrarli da qualche altro capitolo di spesa, e ovviamente sono tutti delicati. Di qui l’empasse e la dicharazione di guerra lanciata dai sindacati dei medici.
Piero Erle – Il Giornale di Vicenza – 20 maggio 2013