In Europa, stando ai dati forniti dalla Commissione europea, gli schemi privati di qualità rappresentano il 56% di tutti i sistemi di qualità. Ma chi controlla?
Lo scandalo della carne di cavallo ha suscitato grande scalpore tra i consumatori ma anche tra i produttori. Le aziende agroalimentari non sono sottoposte solo ai controlli pubblici, ma anche quelle dei sistemi di qualità privati della Grande Distribuzione Organizzata e dell’industria di trasformazione. In Europa, stando ai dati forniti dalla Commissione europea, gli schemi privati di qualità rappresentano il 56% di tutti i sistemi di qualità in Europa. BRC (British Retailers Consortium) IFS (International Food Standard) Globalgap (schema della GDO per l’ortofrutta), sono ben noti perché rappresentano, da anni, il passaporto per la entrare nel circuito delle più importanti aziende di trasformazione e distribuzione europee e mondiali. Basti pensare che solo lo schema BRC ha 14.157 aziende fornitrici certificate ed una crescita annuale del 21%.
Gli scopi di questi sistemi sono quello di selezionare i fornitori in modo da assicurare la qualità delle forniture, di controllare che le aziende di trasformazione (subappaltanti ai grandi marchi) garantiscano sia i requisiti sanitari di base che quelli relativi alle richieste dei singoli disciplinari di produzione (GMP – Good Manufacturing Practice).
Uno dei principi fondamentali di questi disciplinari di qualità è che il fornitore monitori e mantenga attivo il sistema (imposto), per non avere serie ripercussioni sull’integrità o sicurezza del prodotto fornito. Il fornitore, l’azienda agricola, paga sia il mantenimento del suo sistema (conforme agli schemi richiesti da BRC IFS e Globalgap), sia la certificazione stessa.
Ma chi controlla? Il controllo di questi schemi (diversamente per la ISO 22000) è delegato ad enti di certificazione accreditati degli stessi detentori degli schemi di qualità, quindi fuori le regole internazionali ISO. Dunque controllori e controllati sono la stessa entità. Diversamente, ad esempio, da uno schema DOP dove i controllori sono controllati dall’Ente di Accreditamento nazionale, i cui soci sono tutti attori del sistema produttivo, dalle organizzazioni agricole, a quelle industriali, ai consumatori ai Ministeri.
Può un sistema di qualità privato controllato dallo stesso proprietario garantire la qualità e la sicurezza alimentare? Sicuramente si; ma è evidente che il valore del controllo è molto più basso di quello di uno schema controllato da enti terzi o addirittura pubblici. Eppure le grandi aziende di trasformazione e distribuzione considerano insufficienti i controlli effettuati da enti terzi indipendenti e dalla pubblica amministrazione. Perché ciò avviene? E come mai questi sistemi non sono stati in grado di prevenire lo scandalo?
Possibile che nelle GMP non fosse previsto di conoscere la provenienza dell’ingrediente principale? O forse i passaggi di “proprietà” di quella carne sono così numerosi che risulta si troppo difficile e costoso tracciarla (ma molto conveniente comprarla)?
Perché questi schemi sono definiti volontari, se di fatto sono obbligatori per chi voglia entrare nella lista dei fornitori? Perché il loro costo ricade quasi interamente sui fornitori, senza assicurare né i produttori né i consumatori, ma solo i proprietari di questi schemi?
Forse è venuto il momento di farsi delle domande su questi sistemi. Tutela del consumatore o semplice strumento di selezione dei fornitori? Servono forse per diminuire i controlli delle materie prime e semilavorate, facendoli pagare ai fornitori? Tutela della sicurezza alimentare o semplice sistema per certificare i propri processi non necessariamente di qualità? E perché devono essere fuori dagli schemi di accreditamento internazionali?
Carlo Marzo – Il Fatto alimentare – 6 marzo 2013