Se il capo ha lo stress da supervisione. Aumentano le riunioni per coordinare gli altri e cala il lavoro sul quale hanno diretto controllo. Ecco perché i manager rischiano di andare in tilt
Gli inglesi gli hanno dato già un nome: collaborative overload , che possiamo tradurre malamente con «sovraccarico da collaborazione». Si tratta di quel tipo di stress da supervisione che, oggi più di dieci anni fa, accomuna i manager. Professionisti costretti a spendere fino al 95 per cento del loro tempo per leggere email, fare riunioni, stare al telefono, controllare il lavoro degli altri, quando soltanto nel 2006 questa fetta di mansioni occupava il 60% dell’agenda quotidiana.
Certi, prima di mettere piede in ufficio, trovano già fuori una coda di colleghi in attesa di qualcosa. Il Wall Street Journal ha fotografato il fenomeno, mettendo in evidenza come quattro super capi su dieci ormai non riescono più a svolgere tutte le incombenze che hanno in programma. Ma non è una prerogativa esclusiva delle multinazionali americane. Gli psicologi del lavoro hanno registrato la tendenza anche da noi. «Qui, però, ha molto a che fare con la dequalificazione del lavoro manageriale, sempre meno creativo, sempre più di vigilanza e di coordinamento. Il professionista con mansioni ai vertici viene imbrigliato in mansioni di routine», spiega Franco Fraccaroli, docente di Psicologia delle organizzazioni all’Università di Trento.
Spesso succede dopo una promozione, e riguarda allo stesso identico modo chirurghi, presidi o responsabili di produzione. Che si ritrovano a dover dirigere il traffico e non più a guidare la loro fantastica auto. «In Italia resiste una cultura che tende a promuovere le persone più brave affidando a loro i compiti di coordinamento. I professionisti con i quali ho a che fare si lamentano delle stesse cose: il chirurgo, perché non riesce più a operare, sommerso da attività di gestione; il dirigente scolastico, perché non insegna più e perde il rapporto con gli studenti; il responsabile di produzione, perché non produce più alcun prodotto», racconta Claudio Giovanni Cortese, professore di Psicologia del lavoro a Torino. La sua ricerca accademica prevede l’interazione con le imprese, di qui il contatto diretto con i quadri.
Le multinazionali stanno studiando quali sono i fattori di rischio per contrastare il burnout , l’esaurimento delle risorse più preziose. Gli antidoti, per Cortese, sarebbero tre, e si collegano ad altrettante distorsioni della frenesia da lavoro. Il primo ha a che fare con le nostre aspettative: è arrivato il momento di ridimensionarle. Il docente è chiaro: «Bisogna mettere in conto che salendo di grado si rinuncia a buona parte, se non del tutto, di quello che si faceva prima. Questo è il punto di partenza più utile, serve a evitare rimpianti e a concentrare le energie nel nuovo incarico».
Secondo antidoto: impariamo a delegare. Gli smartphone, in questo, si sono rivelati dei pessimi alleati. Riceviamo email a qualsiasi ora del giorno e della notte, fine settimana compresi. Cortese, però, avverte: «La posta elettronica è un modo per tenere informato il capo di un certo progetto, ma solleva anche chi la invia dalle responsabilità: questo è un boomerang per il manager, che per non annegare deve assolutamente far esercitare la delega, altrimenti è inutile che l’abbia data. E consiglio a tutti di spegnere il cellulare il sabato e la domenica: il tempo libero deve essere davvero tale».
Terzo antidoto: abbandonare l’illusione del multitasking, perché aumenta e basta il nostro senso di fatica e non incide nella produttività. «Quello che osservo è che vengono tenute aperte contemporaneamente più finestre — conclude Cortese —, ci si lascia interrompere di continuo. E invece dovremmo abituarci a fare una cosa alla volta. Una dopo l’altra, a fine giornata le avremo fatte tutte, senza affanni».
Elvira Serra – Corriere della Sera – 11 luglio 2016