Il Fatto Alimentare segue da tempo l’incresciosa vicenda della sede dello stabilimento, notizia obbligatoria per oltre vent’anni sulle etichette degli alimenti italiani venduti in Italia di cui il governo Renzi ha tuttavia fatto perdere traccia, omettendo la doverosa notifica della norma nazionale a Bruxelles prima dell’applicazione del regolamento UE 1169/2011. La storia continua, tra tante chiacchiere e pochi fatti.
La citazione in etichetta della sede dello stabilimento, come abbiamo più volte evidenziato, risponde a due legittime esigenze:
– facilitare e abbreviare i tempi di gestione delle crisi di sicurezza alimentare, poiché è certo più semplice risalire all’origine del problema quando si possa facilmente identificare lo stabilimento da cui il prodotto proviene, senza bisogno di attendere di ricevere tale notizia dal titolare del marchio con cui il prodotto è stato venduto (a maggior ragione quando il responsabile delle informazioni in etichetta abbia sede all’estero, vieppiù quando il vizio di sicurezza si manifesti al di fuori dei giorni e degli orari di apertura degli uffici),
– consentire al consumatore una scelta informata di acquisto, che ragionevolmente può tendere a favorire gli alimenti realizzati in un determinato luogo da uno specifico produttore. Non solo per “campanilismo”, che pure ha significativa incidenza sulle economie e l’occupazione in un Paese e in una Regione, ma anche quale riconoscimento del Valore del Lavoro radicato nelle tradizioni e nella cultura materiale dei singoli territori. Come è logico che nell’acquisto di una mozzarella si favorisca il prodotto italiano, e in quello di un brie si prediliga il manufatto d’Oltralpe.
Il blog Io leggo l’etichetta ha raccolto decine di migliaia di firme, per sostenere il mantenimento di quella disposizione del decreto legislativo 109/92 ove si prescrive – quantomeno sui prodotti realizzati e venduti in Italia – la menzione obbligatoria dello stabilimento di produzione o di confezionamento. Al preciso scopo di preservare un’informazione che ha finora permesso ai consumatori italiani di distinguere il made in Italy rispetto al made in Europe. La petizione è stata firmata, tra gli altri, da molti imprenditori e distributori italiani, i quali hanno così dimostrato di avere a cuore il destino della produzione agro-alimentare nazionale, dalla fattoria allo scaffale.
Il Ministro delle Politiche Agricole Martina, sia pure tardivamente rispetto alla data di applicazione del regolamento UE 1169/2011, ha saputo raccogliere questa istanza diffusa, dichiarando la propria volontà a notificare alla Commissione Europea la norma nazionale (1). Ma l’onere della notifica ricade su un altro dicastero, quello dello Sviluppo Economico, la cui titolare ha invece risposto con una non-soluzione. Anziché procedere alla notifica richiesta dal collega di governo, la Ministra Guidi ha comunicato l’intenzione di aprire un tavolo di lavoro nel quale coinvolgere i rappresentanti della filiera produttiva (2).
Stendiamo un velo sulle modalità di interazione tra i membri di uno stesso esecutivo, per annotare come la posizione del Ministro per lo Sviluppo Economico risulti manchevole sotto almeno due aspetti:
– il Ministro delle Politiche Agricole, ma anche decine di migliaia di cittadini (agricoltori, produttori, distributori e consumatori), oltre a diversi parlamentari, hanno semplicemente chiesto di procedere alla notifica di un atto avente forza di legge dello Stato italiano che vige ed è applicato da oltre due decenni, e non anche di rimetterne in discussione i contenuti, in assenza peraltro di delega del Parlamento,
– il ventilato “tavolo di lavoro” pare trascurare la doverosa presenza del Ministero per la Salute – su cui ricade, ai sensi del regolamento CE 882/04, la competenza esclusiva al coordinamento dei controlli ufficiali sulla sicurezza degli alimenti e le informazioni che li accompagnano – né quella del Consiglio Nazionale dei Consumatori e Utenti, costituito presso lo stesso Ministero per lo Sviluppo Economico ai fini della consultazione su temi di loro interesse. Come evidentemente questo.
I gruppi industriali che detengono i brand italiani storici come Buitoni, Agnesi, Garofalo, Bertolli, Carapelli, Sagra, Galbani, Perugina, Pernigotti, Cameo, Star, Saiwa, Algida, Motta potranno continuare a utilizzare tali marchi e a vendere l’immagine italiana dei relativi prodotti
Cui prodest?, a chi conviene questo “bla bla bla” il cui primo esito è quello di ritardare la reintroduzione di una norma ingiustificatamente sospesa? Sicuramente ad alcuni gruppi della grande distribuzione organizzata, che potranno liberamente scegliere di trasferire gli approvvigionamenti presso fornitori di vari altri Paesi, senza che i consumatori ne sappiano nulla. Ma anche ai grandi gruppi industriali che detengono i brand italiani storici – come Buitoni, Agnesi, Garofalo, Bertolli, Carapelli, Sagra, Galbani, Perugina, Pernigotti, Cameo, Star, Saiwa, Algida, Motta, gelateria Fassi, solo per citarne alcuni – i quali potranno continuare a utilizzare tali marchi e a vendere l’immagine italiana dei relativi prodotti quando anche le produzioni saranno delocalizzate in altri Paesi, per qualsivoglia convenienza economica fiscale o finanziaria. Italian sounding, la festa è proprio qui!
Rilanciamo dunque la petizione affinché il governo italiano proceda subito alla notifica della norma nazionale che impone la citazione in etichetta della sede dello stabilimento sui prodotti realizzati e commercializzati in Italia. Sia pure, preso atto dei ritardi, prevedendo un congruo periodo transitorio per l’adeguamento delle confezioni e lo smaltimento di quelle già realizzate nel rispetto del regolamento europeo frattanto entrato in applicazione.
Dario Dongo – Il Fatto alimentare – 23 gennaio 2015