È ancora presto per dire se l’introduzione del nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori abbia determinato una rivoluzione nella disciplina dei licenziamenti: di certo, le innovazioni sono molteplici e alcune sicuramente rilevanti. Avere un’idea di che cosa sta avvenendo nei tribunali può essere interessante, soprattutto guardando all’inedita articolazione delle sanzioni per il licenziamento illegittimo.
Da una prima analisi della prassi applicativa – e, in particolare, delle pronunce di accoglimento in cui il giudice, in base alle valutazioni che la norma gli consente, avrebbe potuto disporre la reintegrazione o il solo risarcimento (in base all’articolo 18 della legge 300/1970, commi da 4 a 7) – emerge un crescente incremento dei rimedi risarcitori: volendo azzardare una stima, i risarcimenti senza reintegrazione sembrano attestarsi intorno a un terzo delle sentenze che dichiarano l’illegittimità del licenziamento.
Naturalmente, questa valutazione è depurata delle reintegrazioni “obbligate”: ossia relative alle ipotesi di violazione dei criteri di scelta nella procedura di licenziamento collettivo e a quelle previste dal comma 1 della norma (quindi, il licenziamento discriminatorio o intimato per gravidanza o matrimonio). È un dato significativo, visto che, in passato, questi giudizi si sarebbero conclusi inevitabilmente con la reintegrazione dei dipendenti.
Un aspetto non meno centrale della riforma, sebbene spesso sottovalutato perché “offuscato” dal dibattito sulla reintegrazione, è quello relativo alla previsione di un tetto massimo al risarcimento del danno: questo vale sia nel caso in cui sia disposta la reintegrazione (eccettuate le ipotesi previste dal primo comma della norma), sia nel caso di tutela obbligatoria. Uno dei problemi principali posti dalla vecchia disciplina, riguardava infatti l’entità assunta dal risarcimento all’esito del giudizio. La mancanza di un limite massimo, e i tempi talvolta molto lunghi del processo, portavano spesso a cifre lamentate dalle imprese come insostenibili, considerando anche che il risarcimento si aggiungeva all’onere derivante dal ripristino del rapporto di lavoro.
È interessante soffermarsi anche sul quantum del risarcimento in assenza di reintegrazione: e, dunque, sui criteri seguiti dai giudici nelle determinazioni. La norma impone al giudice di tenere conto – oltre che dell’anzianità del lavoratore – anche del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, comma 5). A questo si aggiungono, ma solo riguardo al giustificato motivo oggettivo, anche le iniziative assunte dal lavoratore per cercare una nuova occupazione e il comportamento tenuto in fase di conciliazione preventiva.
Nei casi di condanna al solo risarcimento per difetto del requisito di motivazione o per violazioni formali o procedurali (articolo 18, comma 6), il giudice dovrà determinare il quantum guardando solo alla gravità della violazione commessa dal datore di lavoro. La questione è centrale: è infatti frequente che, nell’applicazione del comma 6, al fine della determinazione degli importi – siano considerati anche l’anzianità del lavoratore, la dimensione aziendale o altri elementi, estranei alla previsione normativa.
Sulla misura dei risarcimenti, la prassi tende ad attestarsi su una fascia abbastanza alta. Nel caso di applicazione del comma 6 – che prevede un risarcimento da 6 a 12 mensilità – spesso ne vengono riconosciute tra 8 e 12. Applicando il comma 5, invece, per cui il giudice può spaziare tra 12 e 24 mensilità – frequentemente si rimane tra 14 e 18 mensilità.
Il Sole 24 Ore – 16 dicembre 2013