Che cosa vuol dire che un eventuale provvedimento per reintrodurre la flessibilità sull’età pensionabile deve essere «a costo zero», come ha detto Matteo Renzi, raffreddando gli entusiasmi di chi si aspettava importanti modifiche della riforma Fornero? A costo zero, spiegano i collaboratori del presidente del Consiglio, significa che il costo di queste misure «dovrebbe essere coperto con risparmi equivalenti realizzati nello stesso sistema previdenziale».
Non significa dunque che non si può fare nulla. Ciò che conta, invece, è che alla fine il totale della spesa per la previdenza non aumenti. Quindi, se si spenderà di più per pagare le pensioni di chi lascerà il lavoro prima, bisognerà spendere meno su altre voci.
Questo perché se c’è un capitolo dei conti pubblici che la commissione europea osserva con severità è questo. Non solo per l’Italia, ma per tutti i Paesi. Anzi, in prospettiva, con la riforma Fornero noi abbiamo messo sotto controllo l’espansione della spesa pensionistica meglio di altri. Ciò nonostante il livello della stessa in rapporto al prodotto interno lordo resta in Italia alto, sopra il 15%. E il governo, spiegano, non può permettersi di compromettere la credibilità del risanamento dei conti pubblici che poggia anche sulla riforma Fornero.
È evidente che se la flessibilità in uscita deve essere finanziata con risorse risparmiate nel sistema pensionistico (e quindi non attraverso altri capitoli di bilancio o con nuove tasse e neppure aumentando il deficit) i margini di manovra sono limitati. I tecnici spiegano infatti che sul tavolo c’è un ventaglio di ipotesi, che però avrebbero tutte un costo limitato, tra alcune centinaia di milioni e massimo un miliardo di euro nel 2016. Costi tra l’altro difficili da stimare perché dipendono da quanti lavoratori, una volta prevista la possibilità di uscire in anticipo, sfrutterebbero questa possibilità. Essa, infatti, avrebbe un costo anche per loro, che dovrebbero prendere una pensione più bassa.
Di quanto? Ieri, il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha fornito al governo una serie di simulazioni, ha negato che la riduzione sarebbe del 30%: «Non è così, la nostra proposta non ha un taglio grande delle pensioni, ma una riduzione equa». Boeri ha anche assicurato che le sue proposte non prevedono un ricalcolo dell’assegno con il metodo contributivo. Il meccanismo che ha in mente il presidente dell’Inps porterebbe a una riduzione media del 3-3,5% per ogni anno di anticipo rispetto ai requisiti attuali. Che potrebbe articolarsi secondo diverse varianti: taglio crescente (più anticipi il pensionamento e più sale la penalizzazione annuale) oppure legato al reddito o alla storia contributiva (maggiore per chi ha più anni nel sistema retributivo). Queste proposte si affiancano a quella del prestito pensionistico (il lavoratore esce prima prendendo 700 euro al mese che poi restituisce in piccole rate da quando gli scatta la pensione normale) già messa a punto al ministero del Lavoro. Infine, si valuta la platea da ammettere ad eventuali anticipi di pensione: tutti i lavoratori oltre una certa età (per esempio 62 anni) o, in una prima fase, solo quelli che oltre ad avere l’età rischiano di finire esodati, cioè sono stati licenziati e non trovano lavoro? Questi interrogativi saranno sciolti da Renzi. Il premier, che aveva promesso la flessibilità facendo l’esempio della lavoratrice nonna e vuole godersi il nipotino, sa di aver creato forti aspettative. Alle quali vuole dare una risposta. Con la legge di Stabilità o con un successivo provvedimento.
Intanto, una sentenza della Cassazione a sezioni unite, rischia di creare problemi alle casse privatizzate dei professionisti. La sentenza, infatti, dando ragione a un iscritto alla cassa dei ragionieri, ha stabilito che gli debba essere riliquidata la pensione perché è illegittima la fissazione di massimali pensionabili per le quote maturate prima del 2007.
Enrico Marro – Corriere della Sera – 9 settembre 2015