di Alessandro Barbera e Paolo Baroni. Scena numero uno, Matteo Renzi alla direzione del Pd: «Rispetto e stimo Carlo Cottarelli. Farà quel che crede. Ma non è lui il punto fondamentale: la revisione della spesa la faremo anche se va via, dicendo con chiarezza che i numeri sono quelli». Scena numero due, Graziano Delrio ai cronisti: «Dietro alla questione di Cottarelli ci sono vicende di vario tipo, anche personali». Scena numero tre, Carlo Cottarelli al telefono, a precisa domanda di un solo cronista a proposito di supposte ragioni personali che lo spingerebbero a lasciare: «Da queste battute non mi faccio toccare, vado avanti. Non ho presentato alcuna lettera di dimissioni». A 24 ore dalle voci che vogliono l’ex funzionario del Fondo monetario in uscita dal suo ufficio al Tesoro, il clima è surreale. Dalle parole del premier e del suo sottosegretario è evidente che lascerà. Non oggi, non domani, ma presto.
Il ministro Padoan gli ha chiesto di restare per un po’, a finire di predisporre le ipotesi di tagli che in autunno, con lui o senza di lui, il governo dovrà introdurre nella legge di Stabilità. Se così non fosse, e a meno di non introdurre nuove tasse, la conferma del bonus da ottanta euro non ci sarà. Una ipotesi che Renzi non prende nemmeno in considerazione. Che è successo dunque? Se davvero il lavoro di Cottarelli servirà comunque come base per i provvedimenti del governo, come mai queste mezze dimissioni in piena estate?
Che Renzi e Cottarelli non si amassero era cosa nota. Due storie diverse, due ruoli troppo lontani. Il primo, politico a tutto tondo, impegnato a destare gli italiani dal torpore della crisi. L’altro, altissimo funzionario del Fondo monetario, che negli ultimi 25 anni non si è occupato d’altro che di crudi numeri. Suo malgrado, agli occhi di Renzi Cottarelli rappresentava l’ultima pedina ancora da rimuovere del governo Letta. Eppure nessuno si aspettava uno showdown improvviso. La miccia è stata il post con il quale, l’altro ieri, Cottarelli ha criticato sul suo blog la norma che ha detto sì alla pensione anticipata per circa quattromila insegnanti. Una norma che – dicono al Tesoro – rischia di costare ben 400 milioni di euro in tre anni e non – come dicevano le prime stime – in cinque. Una uscita che a Palazzo Chigi non è piaciuta per nulla, ma l’occasione giusta per lasciar trapelare a mezzo stampa una decisione che sarebbe comunque arrivata. Dopo la pubblicazione del post, mercoledì sera, Cottarelli è stato anche cercato al telefono, ma dall’altra parte non ha risposto nessuno. Secondo alcuni amici per lui è stata in fondo l’occasione di marcare la distanza, stufo di vivere sotto assedio in una stanza d’angolo al Tesoro, con la famiglia lontana (a Washington) e nel dubbio se la nuova norma che vieta il cumulo fra incarico pubblico e pensione (quella che riceve dal Fondo monetario) e prevista dal decreto Madia, si applicasse anche a lui. Insomma, quella che si sta consumando è una separazione quasi consensuale. Dopo l’estate il suo lavoro passerà ad una squadra di fedelissimi del premier guidati dal deputato Yoram Gutgeld. Resta solo da capire come la prenderanno all’estero. Renzi non è preoccupato, il rappresentante delle banche estere in Italia, Guido Rosa, teme una fuga dei capitali dall’Italia per le «continue delusioni» sul fronte dei risparmi di spesa. Il sei agosto Piercarlo Padoan dirà la sua pubblicamente alla Camera. Secondo alcune voci sarebbe stufo quanto Cottarelli. Però in questo caso si tratta davvero solo di voci.
Un piano da sette miliardi in 32 mosse, ma i risparmi sono stati boicottati
Paolo Baroni. Della spending review si sono perse le tracce? Il Giavazzi di turno, come il capo dei deputati di Forza Italia Brunetta non hanno tutti i torti. La revisione della spesa doveva essere la panacea di tutti i mali (di bilancio) e fino ad ora si è rivelata poca cosa. E anche quel poco che si è provato a fare è stato poi smontato, una volta da un ministero, un’altra volta dal Parlamento, altre volte dallo stesso governo.
Basta ricordare che il primo piano «in 32 mosse» del Commissario Cottarelli prevedeva di risparmiare già da quest’anno 7 miliardi, che poi sarebbero saliti a 18,1 nel 2015 e addirittura a 33,9 nel 2016. Al primo test, però, quando si trattava di individuare le coperture per il bonus da 80 euro (6,5 miliardi quest’anno, 10 il prossimo), s’è subito capito che la spending, anche per ragioni di tempo, non poteva rendere granché. E così da 7 miliardi l’obiettivo è stato portato a 4,5. E per le coperture del bonus sono stati indicati in pratica dei tagli lineari, in tutto 2,1 miliardi da spartire tra governo, regioni e comuni. In poche settimane si sono infatti persi… per strada 400 milioni su 2,2 miliardi di risparmi su acquisti e stipendi, un miliardo su due di tagli ai trasferimenti ed un altro miliardo su due alla voce «Settori», perché nel frattempo dal menù erano sparite le pensioni, che da sole, tra prelievi straordinari e blocco delle indicizzazioni, avrebbe fruttato 1,8 miliari quest’anno, 2,4 nel 2015 e 3,4 nel 2016. Ma sul capitolo pensioni è arrivato subito il no di Renzi: la previdenza non si tocca. E dunque calcoli da rifare, ovviamente al ribasso.
A parte questo primo «incidente», per il resto sino ad oggi il governo non ha cambiato di molto le previsioni per i prossimi due anni, le ha solo limate un poco fissando come obiettivo 17 miliardi per l’anno prossimo (ieri però Renzi ha parlato di 16) e 32 per quello successivo. Si partiva da un totale di 59 miliardi in tre anni e si è arrivati a 53,5 miliardi (o forse 52,5).
Poi però sono ripresi gli intoppi e con la sanità si è in pratica ripetuta la stessa storia delle pensioni. «Mr. Spending review» voleva incamerare 3,1 miliardi grazie all’introduzione dei costi standard e al nuovo Patto della salute, ma il ministro Lorenzin e le Regioni si sono accordati per tenere tutti i risparmi all’interno del comparto Sanità. E la riforma della Pa? Anche qui zero risparmi, per la gioia del ministro Madia e soprattutto dei sindacati. Anzi, è previsto che questo decreto in fase d’avvio produca nuovi costi. Anche perché, dopo settimane di can can, la vicenda dei compensi dei dirigenti si è risolta in una burletta. Fissato un tetto massimo di 240 mila euro per tutti i grand commis, radio-governo si era spinta a ipotizzare interventi a cascata su tutte le fasce inferiori della dirigenza, introducendo addirittura nuove griglie di stipendio a 190, 120 e 80 mila euro. Non se ne è fatto nulla, anzi nel frattempo il Senato ha esentato dal tetto i manager delle società controllate. Scelta che ora potrebbe venir ribaltata alla Camera. Intanto, però, Cottarelli ha dovuto tirare una bella riga su altri 1500 milioni di risparmi.
L’ultimo affondo è stato tentato sugli acquisti: da 34 mila centrali si doveva passare a 35-40, in maniera da risparmiare subito 800 milioni che salivano a 5,2 miliardi nel 2015 e a 12,1 nel 2016. Anche Renzi sembrava d’accordo. Poi però, 20 giorni fa, il governo ha fatto un mezzo dietrofront concordando coi Comuni un rinvio al 2015.
«Il commissario propone, poi è il governo che decide» continua a ripetere il premier. Che da tempo tratta Cottarelli alla stregua di un semplice consulente. Non è un caso dunque se i 25 dossier «settoriali» fatti preparare da 25 differenti gruppi di lavoro siano rimasti «top secret». Da marzo. Anche questi troppo scomodi per Renzi?
La Stampa – 1 agosto 2014