Mentre si avvicinano i giorni della verità per la nuova spending review, diventa sempre più chiaro che il dazio del 3% chiesto ai ministeri non basterà a raccogliere i 20 miliardi necessari a coprire tutti i programmi, e una nuova richiesta ai Comuni si fa probabile.
Resta da capire quali criteri scenderanno in campo per dividere le richieste fra i sindaci, ma i costi standard sono ancora lontani dalla definizione effettiva e i parametri utilizzati fino a oggi si sono rivelati incapaci di distinguere «spese» da «sprechi».
Lo dicono, in modo evidente, i numeri dei tagli chiesti ai Comuni dalle richieste che si sono susseguite negli ultimi quattro anni, dalla manovra Tremonti del 2010, agli inizi della crisi di finanza pubblica, fino al decreto Irpef di Renzi, passando per la prima “spending” realizzata dal Governo Monti. In totale, questo pacchetto ha cancellato il 43% dei vecchi trasferimenti su cui i sindaci potevano contare quattro anni fa (nei capoluoghi di provincia il taglio è del 46%), ma i risultati reali sono assai diversi da Comune a Comune. A Lodi, Brescia e Lecco il costo cumulato delle manovre ha raggiunto il massimo, arrivando a trattenere anche più del 70% delle somme che lo Stato assicurava nel 2010, mentre a Caserta, Messina e Cosenza il conto oscilla fra il 19 e il 30%: un discorso a parte merita L’Aquila, ultima in classifica con un taglio del 13%, ma solo grazie alle esenzioni, parziali, ottenute con fatica dopo il terremoto. Tra le grandi, a pagare di più sono Venezia (tagli pari al 66% dei trasferimenti 2010) e Milano (63%), mentre Roma è a metà classifica con una sforbiciata del 48% e Napoli è in fondo con una riduzione del 31% (a Palermo è il 33%). In media, naturalmente, i Comuni del Sud, caratterizzati da un gettito fiscale più povero, potevano e possono contare su trasferimenti statali maggiori, quindi il taglio percentuale risulta più contenuto. Ma a conti fatti gli effetti delle manovre degli ultimi anni non hanno fatto che allargare la forbice. In valori assoluti il primato spetta a Roma (253 euro per abitante), ma il calcolo effettuato solo sui tagli non può tenere conto degli aiuti ottenuti negli anni dalla Capitale sotto forma di salvataggi diretti o di trattative a due con lo Stato sugli obiettivi del Patto di stabilità. Appena sotto, con 252 euro di tagli per cittadino, arriva Milano, mentre Venezia è terza con 246 euro pro capite.
Le cifre sono messe in fila dal Centro studi Sintesi sulla base degli ultimi quattro interventi di finanza pubblica che hanno mosso le forbici nei bilanci comunali. Per capire gli effetti, bisogna dare un’occhiata al meccanismo che regola i tagli: le manovre sono strutturali, nel senso che la riduzione di risorse decisa il primo anno si riflette anche sui successivi, perché le risorse stralciate non tornano più. Per questa ragione, un metodo sbagliato di distribuzione dei tagli, anche se utilizzato una sola volta, si riflette su tutti i bilanci successivi e, ovviamente, sulle richieste fiscali che i Comuni presentano ai cittadini per provare a recuperare le risorse perse.
Dimetodi, in questi anni, nesono stati utilizzati parecchi, ma nessuno è riuscito davvero a individuare i «virtuosi» da preservare e gli «spreconi» da punire, come tutti i Governi hanno invariabilmente promesso almeno dal 2008 a oggi. Nel 2010 hanno fatto la loro ultima comparsai tagli davvero “lineari”, cioè proporzionali ai trasferimenti, nell’anno successivo il decreto «salva-Italia», quello che ha fatto nascere l’Imu, ha scelto di misurare la stretta in base al gettito (ad aliquota standard) che ogni Comune avrebbe ottenuto dalla nuova imposta, conunsistema che haavuto almeno il pregio di collegare tagli e capacità fiscali.
Pochi mesi dopo, con la spendingreview del 2012 affidata al primo commissario straordinario, Enrico Bondi, si è cambiato strada, imponendo a ogni Comune un conto proporzionale alla propria spesa per «consumi intermedi», e questo meccanismo è stato utilizzato fino a oggi. In teoria il presupposto nonsarebbe sbagliato, se fra i Comuni si incontrassero livelli di servizi più o meno omogenei, ma così non è. In un quadro frastagliato come quello italiano, spesso una mancata spesa non è indice di efficienza, ma più semplicemente è conseguenza del fatto che un servizio non c’è oppure funziona a scartamento ridotto.
Lo strumento individuato per superare il problema è quello dei «fabbisogni standard», che dovrebbero misurare il prezzo giusto delle attività comunali e su quella base distribuire le risorse disponibili. In questi anni la Sose (la società degli studi di settore) ha lavorato con l’Istat e l’Ifel, l’istituto dell’Anci per la finanza locale, e ha elaborato milioni di dati per individuare la spesa in eccesso dei Comuni. I risultati, però, al momentohannosolo valore statistico (saranno pubblici da ottobre), perché il processo è stato lungo e complesso e i numeri sono riferiti al 2010. L’aggiornamento è appena partito, ma la strada che porta a un loro utilizzo effettivo è ancora lunga.
Il Sole 24 Ore – 15 settembre 2014