Luigi Oliveri, ItaliaOggi. Per il pubblico impiego tornano sostanzialmente in auge le ricette del 2010, quelle del dl 78/2010 convertito in legge 122/2010, all’origine dello stop all’operatività della riforma Brunetta e del blocco della contrattazione. L’ennesima «versione aggiornata» del disegno di legge di stabilità per il 2016 pesca dal passato misure che le amministrazioni pubbliche ormai conoscono bene e che poco più di un anno fa il governo aveva provato a superare col di 90/2014. Spesa di personale decrescente. La spesa destinata al pubblico impiego è pari a poco più di 160 miliardi, circa il 20% della spesa pubblica totale. Si tratta praticamente dell’unico aggregato di spesa che negli anni si riduce (ancora poco meno di dieci anni fa ammontava a 172 miliardi), grazie alle decisioni di impedire le assunzioni o di contenere in maniera piuttosto drastica i costi contrattuali. Non è, evidentemente, possibile permettersi che la dinamica della spesa per il personale aumenti.
Le scelte del ddl di stabilità dunque ripropongono le ricette ben note. Congelamento dei fondi decentrati. È durato per il solo 2015 lo sblocco dei fondi destinati alla contrattazione decentrata, che l’articolo 9, commi 1 e 2-bis, del di 78/2010 avevano congelato al tetto di spesa del 2010, da ridurre annualmente in proporzione al personale cessato. Il ddl di stabilità ripristina il meccanismo, prendendo a riferimento, però, il 2015. L’attuale testo dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2016, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale non potrà superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2015 ai sensi dell’articolo 9, comma 2-bis secondo periodo del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 e successive modificazioni aggiungendo che deve essere automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente. Ancora una volta il legislatore non stabilisce espressamente quale algoritmo di calcolo occorre utilizzare per assicurare la riduzione dei fondi.
Blocco del turnover. Un altro «classico» delle manovre di finanza pubblica in tempi di crisi è il contenimento delle assunzioni. Il ddl di stabilità prevede che le amministrazioni statali negli anni 2016, 2017 e 2018, potranno assumere personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite del 25% della spesa del personale cessato l’anno precedente. Nel caso di qualifiche dirigenziali, il turnover sarà del 50% per il 2016, dell’80% nel 2017 e del 100% nel 2018. Per gli enti locali resta salvo il 2016: il turnover sarà dell’80% del costo delle cessazioni dell’anno precedente. Tuttavia, negli anni 2017 e 2018 gli enti locali potranno effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite del 25% della spesa relativa al personale cessato nell’anno precedente. Il ddl di stabilità intende disapplicare, negli anni 2017 e 2018 anche il «premio» per gli enti virtuosi, previsto dall’articolo 3, comma 5-quater, che consente di portare al 100% la soglia della spesa per turnover.
Province. Ovviamente, sulle nuove regole relative alla spesa del personale continua ad incombere l’irrisolto problema della ricollocazione dei dipendenti in sovrannumero delle province e delle città metropolitane. Di fatto, nel 2016 il turnover continuerà ad essere bloccato. Il ddl prevede di «forzare» il sistema con l’idea di commissariare le regioni che non abbiano riordinato le funzioni non fondamentali delle province entro 30 giorni dalla sua entrata in vigore. Il commissario assicurerà il completamento degli adempimenti necessari a rendere effettivo, entro il 30 giugno 2016, il trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie relative alle funzioni non fondamentali delle province e delle città metropolitane, in attuazione della riforma DeIrio. Perdurando l’assenza di disposizioni legislative regionali e fatta salva la loro successiva adozione, il ddl di stabilità attribuisce automaticamente alla regione le funzioni non fondamentali delle province e città metropolitane. Il commissario trasferirà il personale sovrannumerario nei limiti della capacità di assunzione e delle relative risorse finanziarie della regione ovvero della capacità di assunzione e delle relative risorse finanziarie dei comuni che insistono nel territorio della provincia o città metropolitana interessata.
Nel frattempo, il ddl prevede di rendere indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del digs 165/2001 vacanti alla data del 15 ottobre 2015 e non coperti alla data del 31 dicembre 2015. (ItaliaOggi)
E dal blocco dei fondi «accessori» nuove incognite sul rinnovo dei contratti pubblici
Gianni Trovati, il Sole 24 Ore. Le attese dei dipendenti pubblici, scesi ormai sotto quota 3 milioni, sono tutte concentrate sul rinnovo dei contratti bloccati da quando, nel 2010, la crisi di finanza pubblica li ha imbarcati negli sforzi taglia-spesa. Dopo qualche incertezza iniziale, il pacchetto messo dalla manovra sul tavolo contrattuale vale 300 milioni, e il suo arrivo nelle buste paga potrebbe aggirare gli ostacoli sollevati dall’obbligo di applicare la riforma Brunetta che impone di ridurre a quattro i comparti e di dividere i dipendenti di ogni amministrazione in tre fasce di merito. Ripescando una norma della Finanziaria 2008, infatti, la legge di stabilità apre alla prospettiva di un’erogazione anticipata, da regolare poi con conguagli quando il rinnovo contrattuale arriverà al traguardo.
Tutto bene, quindi? Non proprio. Il clima con i sindacati si è subito scaldato sulle risorse (per sabato è in programma una manifestazione della scuola), che spalmate su tutti i dipendenti si trasformerebbero in aumenti medi intorno ai 60-70 euro lordi annuali. Sulla quantificazione, però, pesa anche il fatto che Corte costituzionale, nella sentenza con cui ha imposto la ripresa dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, ha anche “salvato” il vecchio blocco, per cui i calcoli si basano sul recupero della sola mini-inflazione attuale.
Il nodo più intricato, però, è rappresentato dal congelamento delle risorse per il trattamento accessorio di ogni amministrazione, che nelle ultime versioni della bozza di manovra ha sostituito il taglio del 10% alle retribuzioni di risultato dei dirigenti. Il punto è proprio questo: se non si possono toccare le risorse dei trattamenti accessori, gli aumenti, piccoli o grandi che siano, devono finire tutti sul tabellare?
Un’ipotesi del genere sarebbe in linea con il mero recupero dell’inflazione, ma solleverebbe problemi tecnici non semplici e soprattutto finirebbe per contraddire la linea della “meritocrazia” evocata da tutte le ultime riforme della Pa.
Proprio l’attesa dell’attuazione della legge Madia, con l’introduzione del ruolo unico dei dirigenti, spinge la manovra a bloccare il reclutamento di nuove figure di vertice, rendendo «indisponibili» i posti liberi in dotazione organica che non siano coperti al 31 dicembre (norma che forse potrà produrre qua e là una corsa alla copertura con incarichi a termine). Per tutta la Pubblica amministrazione, poi, viene confermato l’abbassamento del turn over al 25%, anticipato sul Sole 24 Ore di ieri. (Il Sole 24 Ore)
23 ottobre 2015