Le varianti genetiche SARS-CoV-2 stanno emergendo come una delle principali minacce per gli sforzi di vaccinazione in tutto il mondo in quanto possono aumentare la velocità di trasmissione del virus e/o conferire la capacità di sfuggire all’immunità indotta dal vaccino con effetti a catena rispettivamente sul livello di immunità del gregge e sull’efficacia del vaccino. Queste varianti riguardano la proteina Spike, codificata dal gene S, coinvolta nell’ingresso del virus nelle cellule ospiti e principale bersaglio dello sviluppo del vaccino. Le varianti genetiche del gene N possono compromettere la nostra capacità di utilizzare test antigenici sia per la diagnosi che per gli sforzi di test di massa volti a controllare la trasmissione del virus. Queste le conclusioni dello studio Emergence of N antigen SARS-CoV-2 genetic variants escaping detection of antigenic tests, firmato dal professor Andrea Crisanti e da un gruppo di ricercatori dell’università e dell’ospedale di Padova, di cui il 25 marzo è stato pubblicato il preprint.
Durante lo svolgimento di un ampio studio di convalida sul test Abbott Panbio™ COVID-19 Ag, i ricercatori hanno notato che alcuni campioni di tampone non sono riusciti a generare un risultato positivo nonostante un’elevata carica virale nei test Rt-PCR. L’analisi di sequenziamento dei virus che mostrava risultati discordanti nella RT-PCR e le analisi dell’antigene hanno rivelato la presenza di più sostituzioni amminoacidiche dirompenti nell’antigene N (la proteina virale rilevata nel test dell’antigene) raggruppata dalla posizione 229 alla 374 in una regione nota per contenere un epitopo immunodominante. Una frazione rilevante delle varianti, non rilevata dal test dell’antigene, conteneva le mutazioni A376T accoppiate a M241I. “Curiosamente, abbiamo scoperto che le sequenze di virus con questa mutazione erano sovrarappresentate nei campioni negativi al test antigene e positivi alla PCR e sono aumentate progressivamente di frequenza nel tempo in Veneto, una regione italiana che ha aumentato in modo aggressivo l’utilizzo dei test antigeni, che ha raggiunto quasi il 68% di tutti i test con tampone SARS-CoV-2 eseguiti lì. Si ipotizza che l’utilizzo di massa dei dosaggi dell’antigene possa creare una pressione di selezione sul bersaglio che potrebbe favorire la diffusione di varianti virali non rilevabili”
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La ricerca di Crisanti: “Gli antigenici perdono fino a un positivo su due”
I test antigenici si perdono le varianti, non quella inglese o quella brasiliana che riguardano la proteina Spike (S), ma altre, quelle dell’antigene N, che rischiano così di diffondersi. Potrebbe essere successo in Veneto nella cosiddetta seconda ondata che lì è stata particolarmente virulenta (7.000 morti tra ottobre 2020 e febbraio 2021) e accompagnata da numerose mutazioni, anche locali.
È la conclusione di uno studio atteso, firmato dal professor Andrea Crisanti e da un gruppo di ricercatori dell’università e dell’ospedale di Padova. Farà discutere. In Veneto, perché lì il presidente Luca Zaia ha moltiplicato i test antigenici (nello studio sono indicati come il 67,4%) a volte anche in ospedali e Residenze per anziani. Ma anche a Roma: ieri gli istantanei erano 107.762 su 272.630 tamponi registrati in Italia e sono stati proprio Zaia e altri a ottenere, dal 15 gennaio, che fossero inseriti nel bollettino. Costano meno dei molecolari ma comunque fanno girare centinaia di milioni di euro solo in Italia. Non è l’ennesima polemica Crisanti-Zaia, è uno studio disponibile in preprint su medrxiv .org e in corso di revisione da parte di una prestigiosa rivista britannica.
I ricercatori hanno analizzato 1.441 tamponi eseguiti all’ospedale di Padova tra il 15 settembre e il 16 ottobre 2020, il 44% del totale di quel mese. Sintomatici o contatti stretti di positivi. A tutti hanno fatto il test antigenico (l’Ancov Panbio della Abbott) e quello molecolare Rt-Pcr (Dncov Simplexa di Diasorin). “Il test antigenico ha mancato di identificare correttamente la presenza di Sars-Cov-2 in 19 dei 61 campioni che mostrano un chiaro segnale positivo nella Rt-Pcr (molecolare, ndr) . Comparandolo con la Rt-Pcr, Panbio mostra una specificità del 99,9% (99,6-100) e una sensibilità del 68,9% (55,7-80,1)”. La sensibilità è la capacità di evitare falsi negativi, che ovviamente è un problema serio: Abbott dichiara il 93,3%. Secondo lo studio il “valore predittivo positivo” è tra l’82% e il 48,7% a seconda che il margine d’errore sia 0,005 o 0,001. Cioè si perdono fino a metà dei positivi.
Alcuni infetti sono sfuggiti all’antigenico “nonostante un’elevata carica virale nei test R t – P C R”, scrivono i ricercatori di Padova. Specie in presenza di “sostituzioni amminoacidiche dirompenti nell’antigene N (la proteina virale rilevata nel test dell’antigene)”, e delle “mu tazioniA376T accoppiate a M241I”, una delle varianti venete più aggressive a fine 2020. “Le sequenze di virus con questa mutazione erano sovrarappresentate nei campioni negativi al test antigenico e positivi alla Pcr e sono aumentate progressivamente in Veneto, una regione italiana che ha aumentato in modo aggressivo l’utilizzo dei test antigenici “. Il loro “utilizzo di massa”può “creare una pressione di selezione sul bersaglio che potrebbe favorire la diffusione di varianti virali non rilevabili”.
Cioè, si rischia di lasciare tempo e spazio alla trasmissione delle varianti non rilevate. E’ un pericolo già segnalato a febbraio nella circolare del ministero della Salute, a firma del direttore della Prevenzine professor Gianni Rezza, che invitava le Regioni a una specifica sorveglianza di quelle mutazioni. Non è solo un problema del test Abbott, anche altri cercano l’antigene N. Il virus muterà all’infinito, ripetono gli esperti, quindi possono radicarsi anche varianti che sfuggono ai vaccini.
Oggi si dovrebbero conoscere i risultati della terza indagine dell’Istituto superiore di sanità sulle varianti inglese, brasiliana e sudafricana, che però riguardano la proteina Spike (S) e non l’antigene N. Quella inglese, secondo le prime stime in attesa dell’arrivo di tutti i dati dalle Regioni, potrebbe essere arrivata al 70/80% partendo dal 54% rilevato sui positivi del 18 febbraio: non sarebbe una cattiva notizia, secondo diversi specialisti, perché non offre particolare resistenza ai vaccini. Si potrà oggi rivalutare la sua maggiore capacità di diffusione, che nell’ultima indagine Iss-Salute era stimata al 39% rispetto al ceppo un tempo prevalente, che in Italia e in Europa è detto “spagnolo” e in alcune zone del Paese, oggi, è quasi introvabile. Preoccupa di più la variante brasiliana, che è alla base di diversi casi di infezione di persone vaccinate, in genere non gravi: potrebbe aver raggiunto il 20% dei casi in alcune aree dell’Italia centrale. Studi condotti nel Paranà, in Brasile, e non ancora pubblicati dicono che ha provocato un aumento della mortalità nell’ordine del triplo tra i 20/29enni e del doppio tra i 30/59enni.