Arriva con una circolare del ministero del Lavoro la correzione annunciata da Elsa Fornero a metà ottobre sui contratti a termine. Il periodo di attesa obbligatoria tra un contratto e l’altro potrà essere definito dalle parti sociali, in sede di contrattazione collettiva, ed essere diverso e inferiore a quanto previsto dalla riforma (legge 92/2012) che fissa attualmente il termine minimo a 60 giorni, che salgono a 90 giorni se il primo contratto ha superato una durata di sei mesi.
Il testo del regolamento interpretativo (non il decreto ministeriale di cui s’era parlato nell’intervista) sarà pubblicato oggi e accoglie le numerose sollecitazioni giunte dalle organizzazioni imprenditoriali, preoccupate per il rischio che intervalli troppo rigidi potrebbero determinare il mancato rinnovo di molti contratti in scadenza in questa fase delicatissima per il mercato del lavoro. Il Sole 24Ore di lunedì 15 ottobre aveva stimato in circa 400mila i contratti a termine in scadenza entro fine anno, il 40% dei quali nel settore pubblico. Secondo gli ultimi dati Isfol tra gli occupati a termine vi è una larga prevalenza di giovani: oltre il 50% ha meno di 35 anni contro il 24% dei permanenti. Mentre è pari a circa il 28% il divario tra le retribuzioni medie mensili dei lavoratori dipendenti con un contratto a termine e quelli che possono invece contare su un rapporto a tempo indeterminato. L’iniziativa del ministro arriva nel pieno del confronto tra le parti sociali sulla produttività per il quale Elsa Fornero ancora nella giornata di ieri è tornata ad auspicare un’intesa forte «in modo – ha affermato nel corso di un incontro all’Unione industriali di Torino – che la cifra di 1,6 miliardi messa sul tavolo dal Governo sia indirizzata a sostenere e favorire il miglioramento della produttività nel Paese». Tornando alla novità sulla sospensione tra un rinnovo e l’altro il ministero proseguirà con il monitoraggio previsto sull’impatto della contrattazione a valle e, quindi, sui rinnovi che verranno effettuati con termini diversi e che non potranno in ogni caso superare il limite di durata massima di 36 mesi imposto, come ha più volte sottolineato il ministro, dalle regole europee.
Prima della riforma era consentita la proroga per una sola volta del contratto a termine e una volta scaduta la proroga un nuovo contratto poteva essere stipulato tra le stesse parti soltanto dopo aver atteso una pausa di almeno dieci giorni (che diventavano venti se il rapporto precedente aveva avuto durata superiore ai sei mesi). In fase di confronto parlamentare sul testo del disegno di legge, come si ricorderà, i due relatori Tiziano Treu (Pd) e Maurizio Castro (Pdl), avevano già proposto la strada di affidare la materia delle sospensioni dei termini tra un contratto e l’altro alle parti sociali, con la motivazione che il vincolo perentorio dei 36 mesi massimi di durata non permetteva comunque forme di abuso su questa forma contrattuale che garantisce, di fatto, una flessibilità in ingresso a cui negli ultimi anni si sono adattate tipologie di impresa molto diverse.
Alla fine era però prevalsa la scelta di normare la materia. Ora si torna indietro con una circolare. Una decina di giorni fa (si veda Il Sole 24Ore del 20 ottobre) il ministero del Lavoro rispondendo a un interpello (n. 32/2012) aveva peraltro già chiarito un altro aspetto molto dibattuto tra le parti: nel tetto massimo di 36 mesi non devono essere conteggiati i periodi svolti in somministrazione. Stando all’interpretazione data dal ministero, una volta raggiunta la soglia di durata massima di 36 mesi il datore di lavoro perde solo la possibilità di stipulare contratti a termine, mentre potrà continuare a utilizzare il lavoratore facendo ricorso alla somministrazione a tempo determinato.
Il Sole 24 Ore – 6 novembre 2012