Con la sentenza 4301/12 riconfermato l’orientamento prevalente ma sul punto continuano a pesare i limiti della normativa vigente
La Cassazione, con la sentenza 4301 del febbraio scorso, ha ritenuto legittima l’adibizione per esigenze di servizio a mansioni inferiori del dipendente, se viene assicurato in modo prevalente e assorbente l’espletamento delle mansioni ordinarie. La controversia è stata promossa da un dipendente comunale, il quale ha chiesto al Tribunale di primo grado di accertare il suo diritto al risarcimento dei danni professionali, morali ed esistenziali subiti a seguito di un presunto demansionamento attuato ai sui danni. La domanda, dopo l’esito positivo del primo grado, è stata respinta dalla Corte d’appello di Cagliari, in quanto secondo i giudici le mansioni attribuite al lavoratore erano sicuramente dequalificanti, ma implicavano un impegno temporale circoscritto nel tempo. Per questo motivo le mansioni inferiori non intaccavano le mansioni svolte in prevalenza. Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione contro la decisione, ma la Suprema corte ha confermato le conclusioni del precedente giudizio. Secondo la sentenza le mansioni assegnate al dipendente erano sicuramente inferiori rispetto a quelle inizialmente attribuite allo stesso, ma si sono risolte in adempimenti limitati nel tempo, che non hanno inciso in maniera prevalente sulle mansioni ordinarie relative all’inquadramento di appartenenza. In questo modo viene confermato un orientamento della Cassazione, la quale già in passato ha chiarito che si possono affidare mansioni inferiori quando queste richiedono un impiego di energie lavorative di breve durata, che non incidono sullo svolgimento prevalente delle mansioni ordinarie. La conferma del principio può aiutare a fare chiarezza su molte situazioni controversie, ma è difficile pensare che si ridurranno i contenziosi in materia. Le liti sulle mansioni proliferano perché le aziende chiedono con frequenza sempre maggiore di poter cambiare i compiti assegnati al personale, ma i limiti imposti dall’attuale normativa lavoristica non sono chiari e oggettivi. L’attuale criterio cardine è che le mansioni attribuite al momento dell’assunzione possono essere cambiate, ma solo se equivalenti o superiori; invece, se la variazione disposta comporta l’attribuzione di mansioni inferiori, il dipendente ha diritto al risarcimento del danno alla professionalità che ne consegue. Il principio è attenuto nel caso di mansioni promiscue: in tal caso, occorre fare riferimento alle mansioni primarie e caratterizzanti, ossia quelle prevalenti sia sotto un profilo quantitativo, sia qualitativo. Vi sono anche altre ipotesi nelle quali le mansioni, in deroga alla regola generale, possono essere ridotte. Uno dei casi più noti è quello delle procedure di riduzione del personale; durante tali procedure, possono essere firmati accordi sindacali che prevedono il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori in esubero con l’assegnazione di mansioni diverse. Altra ipotesi diffusa è quello in cui il demansionamento costituisce l’unica alternativa al licenziamento. Per queste situazioni, la giurisprudenza ha ritenuto (disapplicando la norma che sancisce con la nullità ogni patto in materia) valido il “patto di demansionamento”, con cui il lavoratore accetta di proseguire il rapporto di lavoro con mansioni e retribuzione inferiori a quelle di assunzione, se questa misura è l’unico rimedio per evitare il licenziamento. Le mansioni possono essere ridotte anche durante il periodo della gestazione e fmo a sette mesi dopo il parto, per evitare pregiudizi alla salute della lavoratrice, e nei confronti del lavoratore giudicato inidoneo alla mansione specifica e adibito ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute.
Il sole 24 Ore – 5 marzo 2013