Più che avari, beffati. I cinque milioni e mezzo di pensionati — un terzo del totale — che il premier Conte ha paragonato all’Arpagone di Molière tutto sembrano tranne che Paperoni dediti a contare il centesimo. Il sacrificio che impone loro il governo sulla rivalutazione parziale delle pensioni all’inflazione è nient’affatto trascurabile. In tre anni perderanno 3,6 miliardi al lordo delle tasse. Due miliardi e duecento milioni netti. E poi da lì e per sempre 1,2 miliardi all’anno (netti). Nel primo triennio di fatto si accolleranno il 10% di Quota 100.
Contribuendo ad anticipare la pensione di 350 mila “colleghi”, in deroga ai requisiti Fornero.
Requisiti che molti di loro hanno subito in silenzio.
E tutto perché l’esecutivo gialloverde ha cambiato la legge. Sostituendo il ritorno al più favorevole meccanismo Prodi per scaglioni di indicizzazione — così come previsto dal governo Renzi nel 2016, in accordo con i sindacati — ad un ibrido per fasce di pensioni, simile a quello fin qui in vigore ed ereditato dal governo Letta. Con un effetto paradossale. Nel 2019 tutti i pensionati registreranno un piccolo guadagno mensile. Che però sarà circa la metà di quello che sarebbe loro spettato, se la prima manovra del cambiamento non avesse deciso di fare cassa con le pensioni medie. Salvando solo gli assegni fino a 3 volte il minimo: 1.522 euro lordi. Per loro la rivalutazione continuerà a essere piena.
Ma la beffa per i 5 milioni e mezzo di pensionati non finisce qui. Le pensioni di gennaio e febbraio saranno accreditate senza taglio perché calcolate con l’indicizzazione Prodi (3 aliquote applicate per scaglioni). Un’illusione che durerà fino a marzo, quando l’extra sarà recuperato. Come mai? L’Inps ha predisposto in novembre — come sempre succede — i pagamenti delle pensioni del 2 gennaio, applicando la legge in vigore allora, con la rivalutazione più generosa. E con ogni probabilità non riuscirà ad adeguarsi ai nuovi requisiti — inseriti nella manovra che solo oggi sarà chiusa in Parlamento — nemmeno per l’1 febbraio. Ecco dunque la brutta sorpresa di marzo. Quando sarà chiara a tutti l’entità del taglio.
Un taglio «quasi impercettibile per le pensioni superiori a tre volte la minima», per il premier Conte. «Parliamo di qualche euro al mese, forse neppure l’Avaro di Molière se ne accorgerebbe». Non sarà così. Lo scalino non passerà sotto silenzio. E come dice anche il vicepremier Salvini sarà lo stesso cedolino a raccontare la verità ai “novelli Arpagone”.
Secondo la Spi-Cgil, i quasi quattro milioni di pensionati che prendono tra 1.500 e 2.500 euro lordi (significa tra 1.200 e 1.900 euro netti) contribuiranno alla causa dei conti pubblici con 780 milioni di euro in tre anni, quasi un quarto del gettito atteso totale. Difficile pensare a ricchi Epulone.
D’altro canto, minimizzare gli impatti delle politiche è sempre azzardato. Basti pensare ai giovani-fannulloni di Padoa-Schioppa. O a quelli schizzinosi-choosy della Fornero. Gaffe entrate nella storia. Anche perché il nuovo taglio si cumula. Risultato: ogni anno le pensioni da rivalutare saranno più basse del previsto.
Ampliando così le perdite. A catena e per sempre. Nei primi tre anni si viaggia da 300 a 1.600 euro lordi. Trascurabili?
Giudicheranno i pensionati.
Repubblica