Inevitabili nuovi tagli alla sanità. Nonostante tutti gli sforzi fatti dal governo nei mesi scorsi e dalle regioni nelle loro leggi di Stabilità per il 2015, i conti sembra proprio che non tornino. E alla fine sarà inevitabile, in molte regioni, ridurre i costi di quella che è di gran lunga la spesa più pesante per i loro bilanci.
Il caso della Lombardia è emblematico: su un bilancio di 21 miliardi e 300 milioni, quasi 18 miliardi vanno alla tutela della salute.
La riduzione dei finanziamenti statali impatta per 800 milioni, 500 dei quali saranno tolti a ospedali e Asl. Ma potrebbero non bastare. E questo è più o meno il trend in tutti gli enti territoriali.
Per un bilancio più preciso bisognerà aspettare la fine del mese di gennaio, nonostante la maggior parte delle regioni abbia già approvato la propria legge di bilancio. Il governo, con la propria legge di Stabilità 2015, ha infatti previsto tagli per quasi 4 miliardi alle regioni, ai quali vanno aggiunti riduzioni di spesa per altri 1,8 miliardi previsti da norme approvate nel 2014. In questo modo si è ampiamente vanificato lo sforzo fatto con il patto per la salute del 2014 che destinava alle regioni un budget aggiuntivo di 2,5 miliardi.
Insomma, i conti non tornano. Anche perché a questi tagli ne vanno aggiunti altri che pesano comunque sugli enti locali: 1 miliardo alle province (senza contare gli stipendi dei 14 mila dipendenti provinciali destinati a spostarsi in altri enti, che però non sanno come pagargli lo stipendio perché lo Stato ha deciso di sospendere i relativi trasferimenti); 1,2 miliardi per i comuni. Pochi giorni fa lo Stato ha proposto ai governatori delle regioni di intervenire in modo ancora più drastico, azzerando i trasferimenti statali su alcune voci come per esempio fondi per non autosufficienza o le borse di studio.
Anche se nel 2015 si terranno le elezioni in alcune regioni e quindi i governatori faranno di tutto per evitare di far uscire titoli di giornali con i tagli a una spesa alla quale l’elettorato è molto sensibile, i sacrifici sono inevitabili.
La situazione è senza altre vie d’uscita: il bilancio dello Stato è in affanno nel rispetto del vincolo del 3% del rapporto debito/pil. L’obiettivo è di importanza fondamentale perché il mancarlo creerebbe problemi ancora maggiori. L’alternativa alla riduzione della spesa è solo un aumento delle imposte, ma la pressione fiscale sulle imprese, come dimostra il servizio a pag. 6 di questo numero di ItaliaOggi Sette, è già al 65,4%, seconda in Europa solo alla Francia. Impossibile pensare di aumentarla ancora. Le imposte locali, d’altro canto, negli ultimi tre anni sono state addirittura triplicate. Rispetto al gettito Ici di 9 miliardi nel 2009, quando vigeva ancora l’esenzione sulla prima casa, siamo saliti a 23,7 miliardi nel 2012 per effetto dell’Imu su tutti gli immobili. A seguito di altri balzelli successivi, come la Tasi, la pressione fiscale sulla casa è salita a 28 miliardi nel 2014. Anche le addizionali locali sono ormai quasi sempre vicino al massimo consentito. Eppure non basta ancora.
Il motivo di fondo è quello che non si è voluto vedere per molti anni e che ora si è gonfiato fino a diventare un macigno insopportabile: un debito pubblico di 2.120 miliardi, in continuo aumento, che ormai ha superato il 132% del pil. E nonostante tutti gli sforzi fatti negli ultimi anni non c’è verso di fermarne la continua crescita. Per finanziare questa montagna di debiti ogni anno, in un periodo di tassi bassissimi, si spendono tra i 70 e gli 80 miliardi. Tanto per fare un confronto, la spesa sanitaria è di poco superiore ai 100 miliardi. Di questo passo tra poco l’Italia sarà costretta a spendere di più per pagare gli interessi sul debito che per la salute dei suoi cittadini. Quanto può durare?
19 GENNAIO 2015 DI MARINO LONGONI / ITALIA OGGI