Matteo Prioschi e Fabio Venanzi, Il Sole 24 Ore. In più occasioni il legislatore ha tentato di “rideterminare” i trattamenti pensionistici in pagamento calcolati sulla base di normative pregresse molto generose ma non più sostenibili dalle finanze pubbliche. Tentativi normativi resi tuttavia in più di un caso inapplicabili dalla Corte costituzionale che ne ha vanificato gli effetti finanziari, talvolta con maggiori oneri alle casse pubbliche. Lo scorso anno la sentenza 116/2013 ha neutralizzato gli effetti del contributo di solidarietà introdotto dalla manovra estiva del 2011 (decreto legge 98/2011) che aveva previsto un taglio del 5% per le pensioni superiori a 90mila euro annui lordi (e del 15% per la parte eccedente i 200mila euro).
La misura era eccezionale e si sarebbe dovuta applicare limitatamente al periodo agosto 2011-dicembre 2014. Ma la disparità di trattamento rispetto ai soggetti (non pensionati) con redditi superiori a 300mila euro per i quali il contributo si fermava al 3% ne ha determinato l’incostituzionalità.
La decisioni della Consulta, però, non sono andate sempre nella stessa direzione. Già con la legge 488/1999 era stato previsto un contributo del 2% sulla parte eccedente 74.505 euro per il triennio 2000-2002 e successivamente con la legge 350/2003 il contributo fu innalzato al 3% nel periodo 2004-2006 per la parte eccedente 25 volte il trattamento minimo (516,46 euro) stabilito dalla legge 448/2001. La riforma del 2008 (legge 247/2007), che aveva previsto anch’essa un contributo di solidarietà per le pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo, superò il vaglio della Corte costituzionale.
Furono invece bocciate le leggi 638/1983 e 537/1993 che avevano eliminato le integrazioni al minimo sulle pensioni aggiuntive alla prima percepite dalla stessa persona. Con la sentenza 240/1994, la Corte costituzionale decise che gli importi già riconosciuti al 1983 andavano “cristallizzati” e l’Inps non avrebbe dovuto ridurli tagliando le integrazioni.
Sempre nel 1994, con la sentenza 264, fu inoltre giudicato incostituzionale l’articolo 3 della legge 297/1982 che prevedeva il calcolo della pensione sulla base della media contributiva delle ultime 260 settimane precedenti. Secondo i giudici, nel caso in cui in tale arco di tempo il reddito si fosse abbassato rispetto al precedente, c’era il diritto di escludere il periodo meno favorevole.
Tre anni più tardi, a seguito della discussa sentenza 211/1997, la Corte costituzionale precisò che il legislatore per salvaguardare l’equilibrio di bilancio può modificare la disciplina pensionistica fino a ridurre l’entità del trattamento anche se questo è già iniziato.
Anche la Corte di Cassazione è intervenuta su questo tema. Con la sentenza 17892/2014 riguardante la Cassa di previdenza dei ragionieri, ha stabilito che non si può modificare il criterio di calcolo delle pensioni in peggio ampliando il periodo contributivo considerato senza “salvare” quanto maturato in precedenza con le vecchie regole, anche se tale decisione viene presa per garantire la stabilità finanziaria dell’ente previdenziale.
Con l’ultima legge di stabilità il legislatore ha riproposto un intervento di riduzione per i trattamenti superiori a 91.251,16 con un contributo del 6, 12 o 18% secondo l’importo annuo in godimento. Questa volta però è stato previsto che le somme trattenute vengano acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie per concorrere al finanziamento degli interventi volti ad ampliare la platea dei lavoratori salvaguardati. Obiettivo: superare l’intangibilità affermata dalla Corte in materia di diritti acquisiti e di redistribuzione della “ricchezza” tra i lavoratori.
Rischio Pil sugli assegni
Il sistema contributivo, introdotto dalla riforma Dini (legge 335/1995) risulta più aderente ai versamenti previdenziali effettuati dal lavoratore e dall’azienda nel corso dell’intera vita lavorativa. Però non garantisce in modo automatico che il capitale accantonato cresca nel tempo. Anzi, con un’economia in recessione c’è il rischio concreto che il montante si svaluti.
L’importo dei contributi rappresenta il montante contributivo che viene rivalutato annualmente sulla base dell’indice che fotografa il Prodotto interno lordo (Pil). La somma accumulata nel corso degli anni pertanto non èla semplice sommatoria dei contributi perché questi subiscono le rivalutazioni nel corso del tempo.
Il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del Prodotto interno lordo nominale appositamente calcolato dall’Istat, con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare. Maggiore sarà la crescita del Pil, più verrà rivalutato il montante contributivo e più elevata sarà la rata pensionistica messa in pagamento.
Per esempio, a differenza di quanto accadeva nel passato quando nel sistema retributivo il beneficio attribuito al riscatto del titolo di studio produceva gli stessi effetti indipendentemente da quando avveniva (a parità di altre condizioni), un eventuale riscatto effettuato in un sistema contributivo puro, a parità di anzianità e di stipendio, potrebbe determinare pensioni di importo diverso a seconda di quando è stata presentata la domanda di riscatto, perché i relativi contributi versati subiranno un numero di rivalutazioni diverse rispetto alla data di presentazione della domanda.
Nei fatti l’indice rappresenta un tasso di rendimento che – come si vede nel grafico sopra – negli ultimi anni è notevolmente sceso per effetto della crisi. Quello applicato nel 2013 al montante accumulato a tutto il 2012 era dello 0,16 per cento. La caduta del Pil comporta necessariamente una minor rivalutazione dei montanti accumulati nel corso degli anni. Come sottolineato nei mesi scorsi dal commissario dell’Inps Vittorio Conti, per un neoassunto un punto di Pil medio in più o in meno durante la sua vita lavorativa determina un tasso di sostituzione (il rapporto tra l’assegno pensionistico e l’ultimo stipendio) che varia di 20 punti percentuali.
Per la prima volta nella storia del sistema contributivo, quest’anno l’indice potrebbe assumere valori negativi comportando inevitabilmente che le somme finora accantonate, anziché essere rivalutate, subiranno una svalutazione. Naturalmente ciò non riguarda quanto versato nel 2014, bensì quanto già accumulato nel corso degli anni precedenti.
In buona sostanza con un tasso di rivalutazione negativo gli ipotetici 10.000 euro di montante contributivo a inizio anno diventeranno 9.99x euro dodici mesi dopo. La norma a tal riguardo non prevede nulla, tuttavia la questione è nota agli addetti ai lavori.
Lecattive notizie nonriguardano solo i più giovani, quelli che hanno iniziato a versare i contributi dopo il 1995. Infatti per effetto della riforma Monti-Fornero (legge 214) del 2011 anche i lavoratori ai quali si applicava il sistema retributivo perché avevano almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 sono interessati dalla quota contributiva che, dal 2012, trova anche per loro applicazione seppur per una quota inferiore rispetto a quelle retributive.
Le strade percorribili di fronte a un tasso di rivalutazione negativo sono due. La prima sarebbe quella di ammettere la svalutazione, macon un limite ben preciso e cioè che le svalutazioni non dovranno mai intaccare quanto effettivamente versato al netto delle rivalutazioni precedenti. La seconda soluzione potrebbe essere quella di precisare, nel vuoto legislativo attuale, che quando l’indice assume valori negativi esso venga comunque elevato a 1 cosicché le somme fino a quel momento accantonate non subiranno né svalutazioni né rivalutazioni.
Il Sole 24 Ore – 29 settembre 2014