di Sergio Rizzo. Regione Lazio, quei 18.660 euro investiti in penne Montblanc. Diciottomilaseicentosessanta euro: una goccia nel mare magno della spesa pubblica. Per dare un’idea, la somma equivale a sei mesi di stipendio di un impiegato statale. Ma perché il presidente di un Consiglio regionale li debba spendere per acquistare 67 penne Montblanc da 278 euro ciascuna, non lo capiremo mai.
Così come per i 100 (cento) cesti natalizi costati 21.408 euro. Oppure i 76.791 euro impegnati per un non meglio precisato numero di «agende da tavolo». O ancora i 10.560 investiti in biglietti di auguri: diecimilacinquecentosessanta euro!
Si chiamano «spese di rappresentanza del presidente del Consiglio regionale» della Regione Lazio. Il suo nome: Mario Abbruzzese. Nel 2011, anno di fallimenti a catena, disoccupazione galoppante, taglio delle pensioni, aumento delle tasse, gli impegni per questa voce hanno toccato, tenetevi forte, un milione 987.092 euro. Venticinque volte il budget concesso al presidente della Repubblica federale tedesca, Paese nel quale il Prodotto interno lordo saliva intanto del 3 per cento: una crescita che qui ci sogniamo da 12 anni.
Questo confronto dice tutto. Non soltanto rende chiaro perché noi, oggi, non siamo la Germania. Spiega l’indignazione popolare che ha catapultato in parlamento le «orde» grilline. Spiega la sordità di certa classe politica alle urla disperate di un Paese dove i giovani non trovano lavoro e gli anziani lo perdono, i consumi calano e le imprese chiudono. Spiega perché oggi quella decisione presa appena sette mesi fa sull’onda degli scandali dei fondi della Margherita e della Lega Nord, cioè il dimezzamento dei rimborsi elettorali, non basta più. Nel Palazzo si è lavorato sperando di rinviare l’inevitabile resa dei conti per troppi anni. Anche durante l’ultimo, di lacrime e sangue. Ricordate com’è finita con l’abolizione delle Province? Sono ancora tutte lì. La riduzione del numero dei parlamentari, qualcuno l’ha vista? E la nuova legge elettorale, qualcuno ha visto anche quella?
Troppi soldi pubblici, troppo arbitrio nel loro uso, troppa poca trasparenza. Lo denunciavano inascoltati già nel 2006, dovrebbe rammentare chi oggi tira in ballo l’antipolitica e il populismo, non i seguaci di Beppe Grillo, ma due parlamentari della sinistra: Cesare Salvi e Massimo Villone, autori de «Il costo della democrazia». Tutto questo ha scavato un solco profondo fra la società e i partiti, che il taglio tardivo dei rimborsi elettorali e l’introduzione, probabilmente altrettanto tardiva, di controlli più stringenti, difficilmente riuscirà a colmare. Anche perché tanti quattrini hanno contribuito al rigonfiamento di apparati che invece avrebbero dovuto dimagrire, mentre la crescita esponenziale delle disponibilità finanziarie ha generato un’esplosione delle spese tale da alimentare un indotto perverso che ormai vive sulla politica. Un esempio? Basta scorrere le notizie sfornate ogni minuto dai giornali su scandali e scaldaletti disseminati in tutte le Regioni italiane, dove si parla di aperitivi «rinforzati» da 1.500 euro e cene a base di sushi da 800 euro per avere una sia pur pallida idea del giro d’affari dei ristoranti.
Si può stimare che in anni d’oro come il 2008, quando diventò operativa una leggina poi fortunatamente abolita con la quale si sono garantiti i contributi anche nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, il finanziamento pubblico «reale» dei partiti si aggirasse intorno ai 500 milioni l’anno. Mezzo miliardo, fra rimborsi elettorali (quell’anno 292 milioni), contributi ai gruppi parlamentari (che il referendum del 1993 aveva abolito ma che poi sono inspiegabilmente sopravvissuti), fondi ai gruppi politici regionali e locali, soldi ai giornali di partito, sgravi fiscali, sconti postali…
Senza che nemmeno sia stato raggiunto l’obiettivo per cui il finanziamento pubblico dei partiti fu introdotto: la fine della corruzione. La legge del 1974 fu la risposta allo scandalo dei petroli che coinvolse i partiti allora al governo. In Parlamento tutti, tranne i liberali, concordarono: «finirà il malaffare». Diciotto anni più tardi scoppiava Tangentopoli, e ventuno anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, quando il conto dei finanziamenti pubblici incassati in 39 anni considerando anche i contributi alla stampa veleggiava ormai verso i sette miliardi di euro, la Corte dei conti ha ricordato che la corruzione italiana rappresenta il 50 per cento di tutta quella europea.
Lo squarcio aperto dalle vicende degli ultimi mesi sta poi a dimostrare quanto sia diffusa l’idea di considerare il «denaro di tutti come se fosse il denaro di nessuno», per usare l’immagine folgorante di Tommaso Padoa-Schioppa. Con un’indifferenza che lascia sbigottiti. Grazie ai soldi destinati al partito un consigliere regionale sardo ha montato i sensori acustici per la retromarcia sull’auto del figlio. Un suo collega lombardo ha invece acquistato cartucce da caccia. E un consigliere del Friuli-Venezia Giulia, entrato anch’egli in armeria, ha comprato una pistola. Per saperlo c’è voluta la Guardia di Finanza. E passi.
Ma il fatto è che pure per venire a conoscenza di quelle spese di rappresentanza delle quali parlavamo all’inizio è stato necessario l’intervento della Corte dei conti. Nel bilancio ufficiale del Consiglio regionale del Lazio non troverete traccia delle penne Montblanc né dei cesti natalizi. È tutto accorpato in macrovoci. Per quale motivo? Forse perché certe spese sarebbero controllabili, rendendo inevitabili certe domande? Nella lista acquisita dai giudici contabili incaricati di indagare sulle spese del Consiglio sciolto dopo lo scandalo dei 13,9 milioni di fondi ai gruppi politici regionali usati anche per acquistare auto di lusso e pagare conti astronomici in ristoranti di lusso, c’è per esempio una sfilza di contributi ad enti e associazioni locali. Cose del tipo «I love Alatri», «Dorado fishing club», «Tarquinia allegra», «Passione cavallo», «Comitato sagra della bistecca»… Pochi soldi: mille, duemila euro. Sparsi però come una pioggerellina fitta e uniforme su vari collegi elettorali. E poi servizi fotografici, spese per il «buffet del presidente», l’acquisto di «30 piattini» al modico prezzo di 60 euro cadauno… Nonché un investimento librario di 23 mila euro nella stampa di «Cassino e i suoi monumenti»: città natale di Abbruzzese. Al quale, per inciso, la scabrosa vicenda dei finanziamenti ai gruppi consiliari distribuiti dall’ufficio da lui presieduto non ha affatto politicamente nuociuto. Nel tracollo del centrodestra è stato rieletto con 15.469 preferenze. Il popolo è sovrano…
Sergio Rizzo – Corriere della Sera – 4 marzo 2013