di Federico Fubini. Vorrà pur dire qualcosa se una parola della lingua inglese risulta traducibile in italiano solo a prezzo di addentrarsi in lunghe perifrasi. Vorrà pur dire qualcosa, in particolare, del rapporto complicato fra i contribuenti e i Comuni nei quali essi abitano se questa parola suona ancora così inconfondibilmente straniera. «Accountability» è in primo luogo la capacità – o l’obbligo – di rendere conto dell’uso che si fa delle risorse che ci sono affidate.
E esprimerne in pieno il significato in vista delle elezioni amministrative di giugno in Italia significa addentrarsi nei percorsi di una delle tasse più singolari d’Italia: l’addizionale comunale all’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Non è tardi per farlo: il 5 giugno si vota in 1370 comuni, fra i quali sei grandi e medi capoluoghi di Regione come Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Trieste. Oltre undici milioni di persone sono chiamate a dire la loro su come vengono spese le tasse che versano ai Comuni o come vorrebbero fossero spese in trasporti pubblici, pulizia urbana o gestione di giardini, piazze o mercati rionali. Sono tutte competenze dei sindaci e delle loro giunte, di quelle per le quali le imposte locali sono direttamente dedicate. Per la precisione, l’addizionale comunale Irpef nasce con il decreto legge 360 del 1998 come imposta “vincolata”. Doveva servire per alcuni compiti precisi affidati ai sindaci, non come generica fonte a cui attingere per far quadrare in qualche modo i conti di una città. Quell’aliquota in più sull’Irpef sarebbe dovuta salire o scendere — o restare a zero — in base all’esistenza e al costo dei servizi da finanziare.
I dati del ministero dell’Interno dicono che non è andata così. Quasi mai. Molto spesso l’addizionale Irpef si è trasformata negli anni in una tassa-tappabuchi usata, soprattutto nelle grandi città del centro-sud, per rastrellare risorse aumentando in modo costante la pressione fiscale. I sondaggi della Commissione Ue mostrano in effetti un paradosso italiano: questo è il Paese nel quale è saltata la correlazione fra il peso delle tasse comunali e la soddisfazione degli abitanti per i servizi che quelle imposte dovrebbero finanziare. Le aliquote dell’addizionale Irpef salgono esponenzialmente, eppure i residenti di alcuni dei grandi capoluoghi d’Italia danno i voti più bassi d’Europa sulla qualità dei loro trasporti pubblici, dell’igiene urbana o degli spazi cittadini. Più di rado si verifica il contrario: le addizionali salgono meno, ma la performance dei servizi comunali riesce a stare nelle medie europee.
Il caso più plateale di questa frattura fra il peso delle tasse e la qualità del loro uso resta Roma. Come mostra il grafico in pagina, la capitale d’Italia è anche il capoluogo di regione nel quale il costo per abitante dell’addizionale Irpef è più alto. Inclusi i bambini e gli incapienti, si pagano 154 euro per persona nel 2014 dopo un aumento dell’83% rispetto a cinque anni prima (i dati del 2015 saranno disponibili a giugno). Dal 2003 per il Campidoglio il gettito di questa tassa si è moltiplicato per sei da 66,2 a 405 milioni di euro, eppure una progressione del genere non ha prodotto effetti tangibili. Le finanze comunali restano profondamente dissestate e un sondaggio condotto nel giugno scorso in 79 città europee dalla Commissione Ue ha rivelato che Roma si trova in una posizione del tutto particolare: ultima.
Gli abitanti della capitale d’Italia sono i più insoddisfatti d’Europa dei loro servizi locali. I più insoddisfatti, per la precisione, assieme a quelli di Napoli e di Palermo: il terzetto delle città italiane è segnato da fortissimi aumenti delle aliquote, ma non ne mostrano i benefici. Non è un caso se gli elettori delle tre città sono anche quelli in Europa che diffidano di più delle loro amministrazioni, che aspirano risorse e producono poco in cambio. Non che Roma sia la sola. L’aumento maggiore in termini relativi dell’addizionale Irpef ha luogo a Milano, dove ancora nel 2010 quest’aliquota era pari a zero, ma l’anno seguente è stata introdotta con un gettito pari in media a 26 euro per abitante; due anni fa quel costo fiscale era già salito a 143 euro. Difficile valutare quale sia il giudizio dei milanesi sui loro servizi pubblici, perché la loro città non è inclusa nell’indagine della Commissione Ue. Lo sono invece Torino e Bologna e per loro il risultato è ambivalente. Il capoluogo dell’Emilia-Romagna è fra i pochi ad aver ridotto (di pochissimo) il peso per abitante dell’addizionale Irpef negli ultimi cinque anni, anche se esso resta elevato e il gettito attuale della tassa è quasi il doppio di quello che era nel 2003. Certo i bolognesi sono relativamente soddisfatti di ciò che ne hanno in cambio, benché al di sotto delle medie europee: per due terzi sono contenti dei trasporti, per metà anche della pulizia nella loro città. Torino non è troppo diversa. Il peso per abitante dell’addizionale Irpef sale del 62% in cinque anni, come in molte città italiane il suo gettito triplica dal 2003 e la percezione degli abitanti sui servizi pubblici resta in chiaroscuro. Mediocre in confronto al resto d’Europa, non al resto d’Italia: il 52% dei torinesi è “insoddisfatto” della pulizia in città, il 30% lo è dei trasporti, ma solo una netta minoranza si lamenta della qualità di spazi come giardini o aree pedonali. Eppure la sostanza non cambia: l’addizionale Irpef è stata probabilmente lo strumento del più severo inasprimento fiscale di questi anni. Sia a partire dal 2003 che, ancor più, negli anni della crisi del debito sovrano. È stato così per Venezia (più 373%), per Bari (più 59%) o per Genova (più 33%) nell’ultimo quinquennio. Ma non ovunque la storia finisce nello stesso modo. A Firenze, a Cagliari e ad Aosta per esempio l’addizionale è persino scesa.
Il Corriere della Sera – 11 aprile 2016