Al termine del Consiglio dei ministri è lo stesso Matteo Renzi a entrare nel merito dell’argomento: «La presentazione di emendamenti non cambia niente. Si voteranno e vedremo chi ha i numeri». Per il capo del governo la sfida sull’elettività diretta del nuovo Senato, da parte della minoranza interna del Pd, lascia il tempo che trova: «Siamo aperti al confronto, a una discussione, ma senza permettere di mettere veti. Non ci faremo fermare da nessuno, perché qui è in gioco l’ammodernamento del Paese» .
Durante la giornata ha tenuto banco anche la lettera di Giorgio Napolitano, pubblicata ieri sul Corriere. Una difesa dell’impianto della riforma così come emerso finora che ha suscitato diverse prese di posizione e indotto lo stesso presidente emerito della Repubblica, nel pomeriggio, a una precisazione .
Una parte del Pd, la stessa che ha firmato gli emendamenti alla riforma del Senato, dissente apertamente da Napolitano, ma critiche arrivano anche da Forza Italia, da Maurizio Gasparri a Renato Brunetta, che giudicano sbagliati alcuni dei suggerimenti dell’ex presidente: «Con il rispetto dovuto la sua lettera non aiuta il dibattito», riassume il capo dei deputati di FI.
Alla fine è lo stesso Napolitano a sentire l’esigenza di precisare: «Si è da qualche parte scorto nella lettera un riferimento polemico al presidente del Senato. Si tratta di un abbaglio, se non di una gratuita alterazione dei fatti. È facile constatare che in quella lettera nulla è riferito a posizioni o a responsabilità del presidente del Senato: si fa semplicemente accenno e nel modo più neutro ad «aspetti procedurali da definire, con evidente rinvio a questioni che riguarderanno il momento del passaggio alle votazioni in Senato sulla riforma costituzionale». Nel merito di tali questioni procedurali, si precisa, «il presidente Napolitano non è mai entrato e non intende entrare».
Poco più tardi sarà lo stesso Renzi a difendere l’intervento di Napolitano, giudicandolo «molto significativo», giudizio cui si affiancherà in primo luogo il presidente dei senatori pd, Luigi Zanda: «Al momento della sua rielezione, il presidente Napolitano chiese al Parlamento in seduta comune di fare le riforme. Fu ripetutamente interrotto da applausi scroscianti di deputati e senatori. Oggi ripete la sua sollecitazione a non ricominciare sempre da capo. Credo che il Pd debba condividere questo richiamo». Auspicio analogo da parte del vicecapogruppo del Pd a Palazzo Madama, Giorgio Tonini: «Stupisce che qualcuno abbia frainteso le parole di Napolitano, esse tradiscono solo il suo prezioso impegno riformatore»
Dall’elezione diretta all’immunità: i 17 paletti. Gli emendamenti dei «ribelli»: con il muro contro muro iter a rischio, il premier li valuti con prudenza
Guai a dire che la minoranza ha piazzato 17 mine sul terreno della riforma costituzionale, perché i «ribelli» si offenderebbero assai. Ma in giorni di metafore belliche incrociate, è così che il fronte renziano potrebbe accogliere le proposte di riforma depositate dai dissidenti di Palazzo Madama. E che Miguel Gotor, in nome del «riformismo mite dei cattolici democratici e dei socialisti europei», offre a Renzi come antidoto alla guerriglia permanente.
«Noi crediamo nel processo riformatore — assicura il senatore — ma poiché il muro contro muro può metterlo a rischio invitiamo il premier a cercare, con prudenza politica, un accordo preventivo sulla via indicata con saggezza dal presidente Grasso». È la proposta di un patto di non belligeranza, che scongiuri il patatrac: «Sarebbe un grave errore non cogliere questa opportunità storica, magari per impuntature caratteriali. Renzi vuole davvero cambiare la riforma? E con quali voti? Con quelli di Verdini e degli amici di Cosentino, secondo la peggiore tradizione del trasformismo italico, o con la spinta riformatrice dell’intero Pd?». Eccoli dunque, i 17 emendamenti firmati da un numero variabile di senatori che va da 26 a 28. Il primo riguarda l’articolo 1 e restituisce ai senatori competenze in materia di Europa. Ma il più importante è quello all’articolo 2, che reca in calce 28 firme: Gotor, Migliavacca, Broglia, Casson, Chiti, Corsini, d’Adda, Dirindin, Fornaro, Gatti, Giacobbe, Guerra, Guerrieri, Lai, Lo Giudice, Manassero, Manconi, Martini, Micheloni, Mucchetti, Mineo, Pegore, Ricchiuti, Ruta, Sonego, Tocci, Tronti e Turano.
«Il Senato della Repubblica — è il passaggio che farà infuriare il Pd di governo — è eletto dai cittadini su base regionale, garantendo la parità di genere, in concomitanza con la elezione dei consigli regionali». È il punto più controverso della riforma, sul quale potrà realizzarsi una «convergenza larga» con M5S, Forza Italia, Sel, Lega e non solo. «L’articolo 2 sarà votato dall’Aula, perché le versioni di Senato e Camera non sono identiche — avverte Gotor —. Per evitare di mettere a repentaglio il processo riformatore consigliamo di emendarlo». Volete azzerare tutto e ripartire da capo? «È un argomento falso, un paradosso propagandistico. Con un accordo basterebbero pochi accorgimenti per far proseguire il processo riformatore». La mediazione del governo prevede l’elezione indiretta con un «listino a scorrimento», idea che Gotor boccia senza appello: «È un pastrocchio. Così il Grande Nominatore sceglierebbe anche i senatori, magari tra quei consiglieri regionali che hanno bisogno dell’immunità… La politica non è il gioco del Monopoli».
All’articolo 10 Corsini e altri 27 chiedono che alcuni temi qualificati restino di competenza bicamerale, senza però tornare al bicameralismo paritario: libertà religiosa, amnistia e indulto, fine vita, diritti delle minoranze e legge elettorale nazionale. «Vogliamo evitare che il vincitore del premio di maggioranza — spiega Gotor — si ritocchi a proprio piacimento il sistema di voto». E qui il senatore che, in tandem con Chiti, guida i dissidenti, ricorda come «tante volte nei momenti di crisi le minoranze hanno segnato un limite al conformismo». Il mantra di Bersani contro l’uomo solo al comando? «Noi non abbiamo paura del tiranno, dell’uomo nero o della svolta autoritaria, come superficialmente ci viene rimproverato — assicura Gotor —. Il problema è separare le istituzioni dalla politica, perché i salvatori della patria passano e il sistema, già fragile, resta».
L’emendamento all’articolo 13, 26 firme, propone che il sindacato preventivo sulla legge elettorale scatti in automatico. E quello all’articolo 20 chiede per i senatori poteri di verifica, controllo e inchiesta. All’articolo 37 la minoranza ripristina la norma secondo cui due giudici della Corte costituzionale sono scelti dal Senato e, all’articolo 21, ampliano la platea dei grandi elettori del capo dello Stato, perché «il vincitore del premio non può scegliere quasi da solo chi mandare al Quirinale». E qui Chiti propone 200 sindaci eletti proporzionalmente dal Consiglio delle autonomie locali oppure, la stessa platea rafforzata dai parlamentari europei. E ci sono anche due emendamenti Casson all’articolo 7, che cambiano l’immunità per i parlamentari.
Il Corriere della Sera – 7 luglio 2015