Dal Veneto stanno sparendo gli allevamenti. Una lenta agonia che sta portando i piccoli produttori di latte a chiudere bottega. E in questa moria di aziende c’entra relativamente lo scandalo delle quote latte che nei giorni scorsi è tornato alla ribalta con le perquisizioni nella sede milanese della Lega Nord ordinate dalla Procura di Milano, che indaga sulle presunte tangenti che sarebbero servite a rinviare anno dopo anno il pagamento delle multe. L’altro ieri l’ha tirato nuovamente in ballo il premier uscente Mario Monti, che non a caso per il suo affondo ha scelto proprio il Veneto, dove negli anni Novanta la mucca Ercolina era un simbolo e dove tutti ancora ricordano gli scontri tra produttori e polizia a Vancimuglio. «Sulle quote latte la Lega Nord ha causato imbrogli», ha detto il «professore».
Ma se gli allevamenti vanno sparendo, la colpa non è (soltanto) delle multe. I numeri parlano chiaro: le 180 mila vacche presenti in Veneto sono distribuite tra le 4.086 aziende ancora in attività. Dieci anni fa, a fine 2002, erano 8.629. Significa che oltre la metà dei produttori ha chiuso, anche se in alcuni casi c’è stata una fusione tra gli allevatori più piccoli che altrimenti non avrebbero mai potuto reggere la concorrenza internazionale. Perché a mettere in ginocchio il settore è proprio il latte che arriva dall’estero e che rappresenta circa il 50% del fabbisogno nazionale. Tonnellate di prodotto che ogni giorno vengono scaricate dai camion provenienti da mezza Europa, soprattutto da Germania e Francia, ma anche dalla Slovenia e dai Paesi dell’Est.
La produzione regionale in dieci anni è scesa «solo» dell’8,4%, passando dai 12 milioni di quintali del 2002 agli 11 milioni attuali. Significa che in Veneto ci sono meno aziende rispetto al passato ma sono molto più grandi e quindi — almeno in teoria — più competitive. Fino a qualche anno fa si diceva che l’unico modo per sopravvivere alla crisi era espandersi, investire. Oggi si scopre che questo non basta. «Serve un “polo Veneto” del latte, che riunisca le cooperative in modo da abbattere le spese, a cominciare da quelle relative alla distribuzione», spiega il presidente regionale della Coldiretti, Giorgio Piazza. L’associazione dei coltivatori diretti da tempo si batte per ottenere maggiori tutele. «Confido nella capacità degli allevatori veneti, che finora hanno dimostrato di saper resistere, nonostante la crisi», aggiunge Piazza.
Il problema è che il prezzo del latte è ai minimi storici, spiega Terenzio Borga, presidente dell’Aprolav, che riunisce tutti i produttori veneti: «Nel 1995 il latte costava 880 lire al litro. Oggi, in certi casi, lo pagano meno di 40 centesimi. Significa che il prezzo è più basso di quello di 15 anni fa, sebbene i costi continuino ad aumentare».
Le norme italiane, infatti, costringono gli allevatori a dotarsi di tecnologie sempre nuove, per garantire la qualità del latte. Senza contare che gli impianti a biogas, spuntati come funghi un po’ ovunque, utilizzano gli stessi prodotti che vengono dati da mangiare agli animali. «Questo ha comportato un aumento della richiesta, e quindi del prezzo, di mais e soia», lamenta Borga. Costi elevati e prezzi bassi. «In tempi di crisi il consumatore guarda innanzitutto al portafoglio. Di conseguenza la grande distribuzione pretende sconti fortissimi, anche perché l’alternativa è il latte, molto conveniente, che viene dall’estero e che non deve sottostare ai rigidi paletti imposti dall’Italia».
Nel 2015 il sistema delle quote dovrebbe finire, con il rischio di ritrovarsi inondati di latte proveniente da oltreconfine. «Sarà un cambiamento rischioso – ammette il presidente di Coldiretti — gli allevatori veneti non possono farsi trovare impreparati».
Andrea Priante – Corriere del Veneto – 8 febbraio 2013