Bottarga d’Africa e amaranto messicano. Al Salone del gusto quest’anno c’è anche una delegazione di cuoche: sono le Bait al Karama (vuol dire Casa della dignità), il primo presidio palestinese di Slow Food. È a Nablus ed è gestito da sole donne.
Le storie di Terra Madre. Yoko Suda ha 32 anni e da otto lavora nei campi. «Sono una contadina», dice orgogliosa. La sua vita non è più la stessa quest’anno, perché Yoko vive e lavora a Fukushima. Del giorno che le ha cambiato la vita ricorda solo che tremava tutto: aveva paura ed è corsa nei campi. E lì, nella terra, ha trovato la forza di andare avanti. Yoko oggi è a Torino con altre donne — e uomini — di oltre 100 Paesi del mondo che, fino al 29, partecipano al Salone del gusto, organizzato da Slow Food, Regione Piemonte e Città di Torino in collaborazione con il ministero delle Politiche agricole. Un’edizione speciale quella di quest’anno, la prima in cui due eventi — il Salone vero e proprio e Terra Madre, la manifestazione che riunisce i produttori stranieri — si fanno un tutt’uno: 80 mila metri quadri di spazio (il Lingotto più il Padiglione Oval) aperti al pubblico con stand, conferenze, degustazioni e un vero circo, quello del Monferrato, ma senza animali, solo artisti che serviranno la cena dall’alto di un trapezio.
Yoko è venuta qui a Torino (ieri sera era al PalaIsozaki per la cerimonia di apertura) per raccontare il suo progetto di coltivatrice di soia in una città ferita dal terremoto e da un incidente nucleare: «La gente ha ancora paura di mangiare i prodotti che nascono qui, ma noi li coltiviamo proprio per studiarli e capirne la realtà». La soia, che cresce a 60 chilometri dalla centrale, è stata una scoperta: «Elimina la radioattività: nell’olio che produciamo non ce n’è traccia». Il suo è un lavoro in solitaria: coltiva da sola le sue piante, ma poi collabora con altri agricoltori per produrre l’olio.
Nedwa Moctar Nech, invece, 45 anni e due figli di 13 e 10, lavora ogni giorno con altre 50 donne. Nei villaggi lungo il Banc d’Arguin, sulla costa settentrionale della Mauritania, fanno seccare le uova delle ombrine per ricavare la bottarga. Nedwa e le altre sono degli Imraguen, un popolo di pescatori nomadi di questa zona d’Africa. Nel 2006 sono venute in quattro in Italia, a Orbetello: uno scambio culturale per imparare le tecniche toscane di lavorazione delle uova di pesce e portarle in Africa, per adattarle a quelle tradizionali Imraguen. Culture diverse, anche in cucina: «Noi la bottarga la mangiamo con il riso: in Toscana ho imparato a metterla sulla pasta». Per le donne del suo paese, spiega, è un lavoro importante: «La produzione? Dipende dai pesci. Quest’anno la stagione sembra buona, penso che arriveremo a 500 chili».
Carmen Martinez, invece, è messicana e coltiva l’amaranto, un seme. Nella sua cooperativa lavorano 1.100 famiglie di campesinos. E studiano come far crescere le piante in questa terra poco generosa d’acqua. Ma Carmen, 52 anni, ha anche un’altra missione: «Vado nelle scuole ad insegnare come si coltiva l’amaranto, come inserirlo nella dieta quotidiana e come commercializzarlo». Ogni anno la cooperativa ne produce tra le 70 e le 80 tonnellate: «Riusciamo a viverci», assicura. Sua figlia ha 25 anni e anche lei lavora la terra: «I campi ci hanno regalato un presente migliore, e un futuro per i nostri figli».
Al Salone del gusto quest’anno c’è anche una delegazione di cuoche: sono le Bait al Karama (vuol dire Casa della dignità), il primo presidio palestinese di Slow Food. È a Nablus ed è gestito da sole donne. Fatma Kadumy è una di loro e insegna a cucinare i piatti della tradizione: la sua scuola è aperta a tutti, professionisti e dilettanti, anche ai turisti. Un modo per ridare vita alla città vecchia.
Il Corriere della Sera – 25 ottobre 2012