La scossa di ieri è il primo deciso avvertimento, prologo impalpabile a quanto si prepara. Le conseguenze di un “sì” all’indipendenza della Scozia nel referendum del 18 settembre saranno violentissime sul breve periodo, storiche sul lungo. Prima toccherà ai mercati pagare il prezzo del nazionalismo di Edimburgo, poi al ruolo di quel che resterà del Regno Unito nel consesso mondiale.
Gli scenari di un morbido addio, attutito dall’unione monetaria fra i due Stati nel segno della sterlina, dall’apertura dei confini lungo la linea del Vallo e dalla super-special relationship che forse nascerà, non sono ancorati ad alcuna certezza. Idee, ipotesi, sogni probabilmente. La realtà rischia di produrre un brusco risveglio per chi vagheggia di diventare come il Canada «ma – per usare le parole di Paul Krugman – avrà un futuro da Spagna senza sole». Molta pioggia, certamente. La Scozia, in realtà, sarà – in caso di vittoria del “sì” – un Paese relativamente florido, assiso sul tesoretto del Mare del Nord e poco altro se è vero che l’industria finanziaria emigrerà a sud verso il magnete-Londra. Abbastanza comunque per collocarla al quattordicesimo posto della classifica Ocse della ricchezza pro-capite che sarà – secondo la propaganda dei nazionalisti – 2.300 sterline più alta di quella del resto del Regno. Se sventolare la croce di Sant’Andrea, vessillo di uno stato indipendente, sarà solo un decente affare o invece un ottimo affare dipenderà prima di tutto dalla capacità di convertire un’economia legata a riserve petrolifere in declino e all’esito di negoziati quantomai incerti sulla moneta (pound sì, come vogliono i nazionalisti, pound no, come minaccia Londra) e sulla quota di debito nazionale a carico di Edimburgo.
Per chi sarà un pessimo affare è certamente il resto del Regno. Un terzo del territorio se ne andrà insieme con un decimo della popolazione e una fetta importante di export legato all’industria degli idrocarburi. Non basterà, per lenire tante ferite, accontentarsi dei ridotti trasferimenti da Londra a Edimburgo che, pro capite, pesano assai perché il welfare costa più a Nord che a Sud del Vallo. Il prezzo a carico di Londra è politico, più che economico. Il posto nel G-7 resterà saldo? Quello al Consiglio di sicurezza dell’Onu? In linea assolutamente teorica potrebbe essere, “in parte”, rivendicato da Edimburgo. Il distacco, soprattutto, potrà farsi prologo alla dissoluzione, in un’esplosione incontrollata di “voglie” nazionalistiche e pulsioni localistiche. Da Edimburgo a Belfast la distanza è poca e non solo geograficamente. Una nuova vampata anti-unionista illuminerà l’Ulster e i lampi separatisti, a quelle latitudini, odorano di polvere da sparo. Cardiff già riflette sull’identità gallese. Tutto potrebbe accadere, una sola cosa accadrà con ragionevole certezza in caso di secessione: Londrà uscirà dall’Unione europea. La sottrazione degli elettori scozzesi ed eurofili dal totale dei votanti al referendum nel 2017 sull’adesione all’Ue nel 2017 voluto dal premier David Cameron inclinerà irrimediabilmente la bilancia a favore del temuto Brexit. E quel giorno sui mercati il “terremoto” avrà ben altra intensità.
Il Sole 24 Ore – 9 settembre 2014