Costituisce discriminazione nei confronti delle lavoratrici il comportamento del datore di lavoro che, a fronte di una norma contrattuale collettiva da cui consegue il passaggio a un superiore livello di inquadramento dopo 24 mesi di servizio, non abbia considerato i periodi di assenza per congedo di maternità e parentale ai fini della progressione di carriera.
Il tribunale di Venezia (sentenza 336/2016) è pervenuto a questa conclusione nel caso di una società che ha negato a una dipendente, con mansioni di addetta di scalo aeroportuale, la promozione al IV livello, in applicazione del Ccnl per il personale di terra del trasporto aereo, dopo 24 mesi di servizio trascorsi nel V livello.
La tesi propugnata dall’azienda è che il riferimento del contratto collettivo ai 24 mesi debba essere inteso quale periodo di servizio effettivo, nel senso che possono essere ricompresi nell’anzianità aziendale utile a maturare il diritto al livello superiore solo i periodi in cui la lavoratrice è stata presente in servizio attivo.
Il tribunale di Venezia rigetta questa tesi e, alla luce di una lettura sistematica delle disposizioni contrattuali, perviene alla conclusione per cui la disciplina collettiva solo apparentemente può essere intesa come riferibile a un periodo di servizio effettivo nel V livello, in quanto prevale il dato per cui le mansioni di riferimento, sia nel IV che nel V livello, sono le medesime. Da ciò consegue che, in presenza di mansioni coincidenti, l’elemento dirimente non può essere l’esercizio concreto delle stesse, quanto il dato temporale costituito dal decorso dei 24 mesi.
Dalla violazione della disposizione contrattuale deriva, ad avviso del tribunale, che il mancato riconoscimento del livello superiore, per non essere stati conteggiati i periodi di maternità obbligatoria e i successivi congedi parentali, integra gli estremi di una discriminazione diretta in ragione del genere femminile cui appartiene la dipendente.
A ulteriore conforto delle proprie conclusioni il giudice richiama gli articoli 22 e 34 del Dlgs 151/2001, a norma dei quali sia i periodi di congedo di maternità, sia quelli di congedo parentale, devono essere computati nell’anzianità di servizio. A evidenza della discriminazione nei confronti dell’addetta di scalo, il tribunale richiama, inoltre, il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, il quale, tra le altre disposizioni, ha previsto che «costituisce discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive».
Infine, il tribunale osserva che il carattere discriminatorio della mancata progressione di carriera è risultato, nel caso specifico, ancora più evidente per il fatto che nei confronti di altri lavoratori rimasti assenti per malattia, al fine del raggiungimento dei 24 mesi di servizio utili a maturare il diritto al IV livello, non è stata operata la detrazione dei periodi di astensione dal lavoro.
Giuseppe Bulgarini d’Elci – Il Sole 24 Ore – 13 luglio 2016