La Repubblica- Superare Quota 100. Riformare la Fornero. I sindacati propongono di andare in pensione a 62 anni con almeno 20 di contributi e senza penalizzazioni. Il 27 gennaio ne parleranno con il ministro del Lavoro. Pasquale Tridico, 44 anni, guida l’Inps dal 14 marzo 2019.
Presidente, cosa ne pensa?
«Sono state fatte diverse proposte e non mi sembra giusto aggiungerne altre. Ma la flessibilità rispetto ai 67 anni va garantita, soprattutto se ragioniamo in termini di logica contributiva. Si fissa una linea di età per l’uscita, poi il lavoratore deve essere libero di scegliere quando andare in pensione. Ovviamente con ricalcolo contributivo, come avverrà per tutti dal 2036. È poi necessario prevedere pensioni di garanzia per i giovani, coprendo i vuoti contributivi dovuti al lavoro precario».
Solo metà della platea stimata dal governo Lega-M5S ha scelto Quota 100 per anticipare la pensione. Si può parlare di flop?
«Quota 100 rappresenta una forma di flessibilità sperimentale rispetto alla riforma del 2011, utilizzata sin qui da 150 mila pensionati su 229 mila domande. Anche per questo non sono d’accordo con chi parla di uno “scalone” che si aprirebbe alla sua scadenza, il 31 dicembre 2021. Quota 100 nasce già per risolvere lo scalone creato dalla riforma del 2011, la soglia dei 67 anni. Nel 2022 ci sarà meno esigenza di oggi ad uscire a 62 anni con 38 di contributi.
Paradossalmente si potrebbe anche prolungare Quota 100 per due anni, perché il numero di chi ha quel tipo di requisiti si sta asciugando. Lo dicono i numeri. Se non tutti gli aventi diritto ne hanno usufruito è perché, oltre alle motivazioni personali, andare in pensione dopo aumenta il montante contributivo e quindi la pensione».
Quanti soldi si sono risparmiati da Quota 100? Come li utilizzerebbe?
«Al presidente dell’Inps compete al massimo l’onere di una proposta, le decisioni sono politiche. Ciò detto mi aspetterei che i risparmi da Quota 100 – 6,2 miliardi nel triennio 2019-2021 rispetto ai 18,6 miliardi stanziati – restino allocati nel settore pensionistico, riprendendo le perequazioni piene, ma soprattutto iniziando a pensare a una pensione di garanzia per i giovani».
Il reddito di cittadinanza è fortemente sbilanciato sui single e le famiglie senza figli. Tornasse indietro, suggerirebbe ai Cinque Stelle – da consigliere di Di Maio – di rinunciare alla soglia dei 780 euro?
«Oggi il sostegno monetario è di 500 euro a cui si aggiungono 280 euro, se il nucleo è in affitto. I 780 euro sono la soglia di povertà media in Italia.
Abbassarla significherebbe non coprire una parte dei poveri. È anche vero che le famiglie numerose ricevono progressivamente meno risorse. Ma per una famiglia con 4 figli che vive in una città grande del Nord bisognerebbe prevedere 2.129 euro. Non penso ci siano le risorse.
Ricordo poi che il Rei dava al massimo 590 euro e il reddito di cittadinanza arriva a 1.380 euro. Una rimodulazione più equa è però possibile, abbassando il sostegno monetario a 400 euro e alzando a 380 il sostegno all’affitto, come propone il professore Maurizio Ferrera».
La povertà non è stata sconfitta.
Cosa manca ancora?
«Il centro studi Inps calcola che grazie al reddito di cittadinanza la forbice tra i redditi più ricchi e quelli più poveri – cioè il rapporto tra il 20% più ricco della popolazione e quello più povero – si è ridotto da 6,4 a 5,9 volte. Contestualmente, l’intensità della povertà spiegata dall’indice di Gini è scesa di circa 1 punto. Questo significa che si ha un trasferimento netto di risorse al primo decimo di reddito più povero – cosa mai successa in Italia – e in parte al secondo decimo più povero. Dati straordinari che denotano una forte efficacia della misura nel ridurre povertà e disuguaglianza. La considero la più grande politica sociale degli ultimi 30 anni: 2,5 milioni di percettori di reddito che corrispondono a 1,1 milioni di famiglie».
Un anno fa Salvini e Di Maio dicevano che Quota 100 avrebbe portato 1 milione di posti di lavoro in tre anni. Non è andata così. E anche il reddito di cittadinanza avanza pianissimo sul fronte dell’attivazione al lavoro. È stato un errore cedere alla propaganda?
«L’occupazione dipende dagli investimenti, non mi stanco di ripeterlo. L’80% di chi accede a Quota 100 proviene dal mondo del lavoro e di questi la metà dal settore pubblico, dove la sostituzione con nuovi occupati giovani sarà man mano del 100%. Anche in Inps abbiamo assunto 3.500 persone a luglio e altre 2.000 nei prossimi mesi. Quanto al Reddito è anzitutto un sostegno contro la povertà. L’Anpal calcola in 730 mila i percettori attivabili e fin qui 29 mila hanno trovato occupazione. Ma gli occupabili si trasformano in posti solo quando le imprese assumono. Mi auguro che il legislatore trovi il modo di introdurre un correttivo utile ai lavoratori stagionali: sospendere il reddito fino a 3 mesi nel primo anno, se trova un impiego».
Lei sostiene che un fondo di previdenza complementare pubblico gestito dall’Inps aiuterebbe donne, giovani, lavoratori dalla carriera discontinua a costruirsi una pensione. In che modo? Il problema è la pensione di domani o il lavoro povero di oggi? È davvero questo il ruolo dell’Inps?
«Il problema è il lavoro povero di oggi che si tradurrà in pensioni basse domani. Per questo sostengo la necessità di un salario minimo per aiutare i working poor. Il ministero del Lavoro sta anche pensando a una legge delega per istituire un fondo che sostenga le pensioni del futuro attraverso una defiscalizzazione maggiore e incentivi. Non devi essere necessariamente un lavoratore per versare, lo può fare anche un genitore o un nonno. Il fondo sarebbe gestito dall’Inps in via amministrativa, abbattendo i costi rispetto al privato che poi porta quei soldi per il 75% all’estero. Le somme sarebbero invece investite da Cassa depositi e prestiti in Italia. Se l’Inps amministra 800 miliardi, ne può aggiungere anche altri 20 o più».
Il decreto dignità che lei ha contribuito a elaborare non sembra aver invertito il trend del part-time involontario, dei lavoretti pagati poco, delle ore di lavoro in discesa.
Cosa ne pensa della proposta di ripristinare l’articolo 18?
«Se l’obiettivo dell’abolizione dell’articolo 18 era aumentare investimenti dall’estero, occupazione e produttività, quell’obiettivo è fallito. Applichiamo intanto la sentenza della Corte Costituzionale che considera illegittima la rigidità del sistema sanzionatorio sostitutivo della reintegra e suggerisce di rivedere la modulazione delle sanzioni. Questo si può fare. Il decreto dignità, di cui do una valutazione molto positiva, ha operato proprio nella direzione auspicata dal movimento sindacale negli anni ‘70 con la conquista dell’articolo 18. Contribuendo a produrre un forte aumento dei contratti a tempo indeterminato – da 72 mila in più nell’ottobre 2018 a 385 mila in più nell’ottobre 2019 – e delle trasformazioni stabili cresciute del 44%: 187 mila in più nel periodo gennaio-ottobre 2019 rispetto all’anno prima. Le ore lavorate sotto il livello pre-crisi sono un problema da affrontare. Se dipendesse da maggiore produttività, allora perché non pensare a ridurre gli orari a parità di salario?».
L’Inps continua a mostrare inefficienze: ritardi, errori, bachi informatici. Sta rimediando?
«Gestiamo 41 milioni di prestazioni in entrata e in uscita al mese con appena 30 mila dipendenti. L’Inps è la più grande azienda pubblica d’Europa, con un terzo dei dipendenti di analoghi istituti europei. Sono in Inps da 9 mesi e mi sento investito di una grande responsabilità e missione sociale.
Stiamo lavorando per migliorare e ci scusiamo dei disagi».