Antonio Nardone, lei è da quattro mesi l’amministratore delegato di Miteni, l’azienda di Trissino di proprietà della multinazionale tedesca International Chemical Investors al centro del caso Pfas. Come state affrontando questa vicenda?
«Fermo restando che la tutela della salute pubblica è in cima ai pensieri di tutti, purtroppo si sta facendo un gran trambusto e alcune persone stanno strumentalizzando la questione, creando inutile allarmismo».
La magistratura vi ha contattato in questi giorni?
«Assolutamente no. Ai nostri legali, mai chiamati da alcuna procura, non risulta neppure sia aperto un fascicolo, su questo fronte siamo tranquillissimi. Altrettanto purtroppo non possiamo dire sul piano mediatico, dov’è in atto un processo che, oltre al danno d’immagine, sta minando il clima aziendale. Non scordiamoci che in Miteni lavorano 125 persone, che hanno altrettante famiglie».
Il consigliere del Movimento Cinque Stelle Patrizia Bartelle ha invitato la procura a mettere i sigilli alla fabbrica.
«Ci vorrebbero i presupposti legali per farlo e non ci sono. Guardi, in questi giorni ne ho sentite di tutti i colori, compreso che Miteni “sverserebbe” sostanze tossiche nelle falde. Noi non “sversiamo” proprio nulla e chi lascia intendere il contrario sappia che potrebbe essere querelato».
A puntare il faro sulla Miteni è stata l’Arpav.
«Stiamo collaborando con gli enti preposti ai controlli da ben prima che scoppiasse il caso, dal 2000 partecipiamo a comitati internazionali di studio e abbiamo già preso ogni tipo di precauzione. I composti potenzialmente più pericolosi, ossia le Pfos e le Pfoa, non vengono più prodotti dal 2011 e da ancor prima le acque reflue non venivano scaricate ma trattate all’interno dell’impianto. Quello di Trissino oggi non è soltanto uno stabilimento in sicurezza, ma perfino più a norma della norma».
Lo era anche un tempo?
«Le gestioni precedenti non le conosciamo nei dettagli, soprattutto la primissima, la Rimar».
Avete valutato l’ipotesi che sotto lo stabilimento, in anni lontani, possano essere state stoccate delle Pfas?
«Nel 2013, in occasione della certificazione ambientale volontaria, furono fatti alcuni sondaggi sul terreno e furono trovate piccole tracce di trielina e di Pfas. Queste ultime, come ormai hanno imparato tutti, non sono tabellate, dunque Miteni avrebbe potuto non fare nulla e lasciare tutto com’era ma siccome è un’azienda eticamente responsabile ha voluto comunque avviare le bonifiche, concertate in una conferenza dei servizi, con la messa in sicurezza di emergenza dell’area. Abbiamo perforato 70 pozzi per monitorare le sostanze contaminanti e visto che lo stabilimento misura 500 metri per 200, credo che uno stoccaggio abusivo lo avremmo trovato. Così non è stato».
Sta di fatto che a monte di Miteni l’acqua è in regola, a valle presenta valori abnormi. Come se lo spiega?
«Andrebbe chiesto agli enti di bonifica che paghiamo affinché si occupino della depurazione delle acque provenienti dagli scarichi industriali. Loro ci hanno dato dei limiti e noi li abbiamo rispettati. Comunque Miteni non può essere responsabile degli alti livelli di inquinamento scoperti nella falda a valle, per due ragioni: il primo è che sono state trovate Pfas anche a nord dello stabilimento, a Paese, nel Trevigiano, per cui non ci può essere rapporto di causa-effetto. E d’altronde si tratta di sostanze usate in molti campi, dal tessile al conciario. In secondo luogo perché le Pfas eventualmente disperse dalla mia fabbrica dovrebbero arrivare a valle diluite nell’acqua, invece il loro numero cresce lungo il percorso. Come sarebbe possibile, se l’origine fossimo solo noi?».
Ciò detto, i valori restano elevati e l’acqua in qualche modo dovrà essere ripulita. Voi siete disposti a contribuire?
«Diamo ogni disponibilità tecnica ma il problema va oggettivato aldilà delle strumentalizzazioni politiche. Per dire, tutti conosciamo il problema gravissimo del cromo esavalente. Ebbene il cromo, un cancerogeno conclamato, ha un limite di 50.000 nanogrammi per litro di acqua potabile mentre alle Pfoa, sospetto cancerogeno senza effetti dimostrati sulla salute, viene applicato oggi un limite di 500 nanogrammi per litro. Cento volte di meno».
Gli effetti sulle persone saranno noti al termine dello studio annunciato da Regione e Istituto superiore di sanità.
«Anche su questo siamo pronti a dare una mano. Dal 2000 il medico di fabbrica monitora le condizioni dei nostri operai, senza riscontrare problemi, potrei dire che siamo tra i maggiori esperti in materia in Italia. Esistono studi internazionali di enti pubblici già scientificamente validati, per quale ragione ora si vuol ripartire da zero con un esborso di miliardi e un’attesa di almeno dieci anni? Perché non utilizzare le conoscenze che abbiamo già?».
Marco Bonet – Il Corriere del Veneto – 30 aprile 2016