I negoziati sul Trattato commerciale di libero scambio tra Ue e Usa (Ttip), sono circondati ancora da troppi segreti e stanno sollevando timori per la possibile riduzione degli standard di sicurezza europei nel campo alimentare e ambientale. Il timore è che si baratti qualche punto di Pil con le regole europee sulla sicurezza alimentare. L’approccio di Usa e Ue, nel settore alimentare, va ricordato, è opposto. In Ue vige il principio di cautela: non si commercializza un prodotto o una sostanza che potrebbe essere rischioso per la salute fino a quando non è provata, con dati scientifici, l’entità del rischio. Controllo ex ante. In Usa è l’opposto: il prodotto non fa male fino a prova contraria. Controllo ex post. Il Fatto alimentare ha intervistato in proposito Alberto Mantovani, direttore del reparto di tossicologia alimentare e veterinaria dell’Istituto Superiore di Sanità ed esperto dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). E il Sole 24 Ore dedica al tema un approfondimento in vista di Expo Milano.
L’INTERVISTA AD ALBERTO MANTOAVANI
Ci sono punti non negoziabili all’interno del negoziato ?
Quel che posso dire è che il quadro in cui si muove l’Unione europea, stabilito dal Libro bianco del 2000 non mi risulta essere mai stato messo in discussione, è che la sicurezza alimentare, intesa come protezione della salute dei cittadini e come fiducia dei cittadini nel sistema di protezione, è uno dei valori fondamentali che informano tutta l’azione dell’Unione europea. Mi sembrerebbe quindi strano e contraddittorio che fossero intraprese azioni apertamente in contrasto con questa posizione di fondo.
Le negoziazioni sul TTIP riguardano l’eliminazione delle barriere tariffarie e di quelle non tariffarie, prevedendo un’armonizzazione dei due sistemi, europeo e statunitense. Cosa potrebbe significare la nuova situazione nel campo dei pesticidi, dei materiali a contatto con gli alimenti e dei mangimi?
Un’armonizzazione può voler dire molte cose. Dal punto di vista degli esperti scientifici, un’armonizzazione può anche essere auspicabile, se la parte che ha un approccio meno aggiornato e meno solido si conforma a standard più alti (in genere più protettivi nei confronti dei consumatori e dell’ambiente). In genere la posizione europea risulta più cautelativa, rispetto a quella statunitense: questo è vero nella maggioranza dei casi ma non sempre. Su argomenti come gli interferenti endocrini, alcune authority statunitensi, come l’Environmental Protection Agengy (EPA), hanno avuto un ruolo di avanguardia a livello mondiale e hanno svolto certamente da stimolo anche nei confronti delle istituzioni europee. In sintesi un’eventuale armonizzazione non può che basarsi sui principi fondanti della tutela del cittadino e dell’ambiente.
Si tende a dire che la posizione europea è più avanzata di quella statunitense, perché si basa sul principio di precauzione, secondo cui un prodotto non viene autorizzato sino a che non è dimostrato che è sicuro, mentre gli Stati Uniti lo vietano se viene dimostrato che è pericoloso. Secondo lei è vero?
In molti casi, questo è profondamente corretto; infatti, l’Europa vuole un’evidente assenza di rischio, non semplicemente l’assenza dell’evidenza di un rischio. Da noi l’identificazione di incertezze scientifiche serie giustifica l’adozione di misure basate sul principio di precauzione. Questo aspetto può essere declinato in molti modi ma comunque, tra le varie scelte possibili, prevede che si faccia quella più protettiva per il consumatore. L’esempio più noto è il divieto nel 2011 della presenza del Bisfenolo A nei biberon prodotti e commercializzati in Europa, deciso sulla base di un parere dell’Efsa, che lasciava adito ad alcune incertezze sulla sicurezza della sostanza alle dosi che potevano essere assunte dai bambini. Questi elementi hanno fatto scattare in maniera assolutamente corretta il principio di precauzione. Un altro aspetto meno noto in cui l’Europa è più avanzata da un punto di vista scientifico, è quello sulla strategia relativa alla sicurezza alimentare. In linea di principio, la strategia “dai campi alla tavola” richiede un controllo integrato di filiera, che va dalla produzione primaria, compresi i mangimi e dai fertilizzanti, fino alla vendita al dettaglio. I controlli statunitensi sono più concentrati nella parte intermedia, cioè sulla grande produzione alimentare. In questo caso, un’armonizzazione fatta in modo corretto potrebbe andare a tutto vantaggio dei consumatori americani e dell’intero sistema statunitense, che sarebbe protetto in modo più completo.
La scelta statunitense di concentrare i controlli sulla fase intermedia della produzione a cosa è dovuta?
Credo sia dovuta a un’elaborazione meno avanzata della valutazione del rischio. Un analogo metodo adottato anche dall’Europa prima della costituzione dell’Efsa che ha introdotto una strategia più complessiva di azioni che spazia “dai campi alla tavola”. In quel periodo, il sistema dei controlli in Italia, pur con innegabili difetti di applicazione, era quello più avanzato, perché già pensava ad operare sull’intera filiera, basandosi sulla rete del Servizio Sanitario Nazionale diffusa sul territorio.
Secondo uno studio del Center for International and Environmental Law, le grandi multinazionali stanno premendo affinché passi la posizione statunitense che, nel campo dei pesticidi, significherebbe poter utilizzare 82 pesticidi attualmente vietati nell’Unione europea. Dal suo punto di osservazione, lei ha sentore di come si muovono le multinazionali e come cercano di influenzare le trattative sul TTIP?
La posizione delle multinazionali è chiara e trasparente. Ricordo un recente comunicato dell’associazione dei produttori americani di fitosanitari, non comprendente solo le multinazionali, secondo cui le regole dell’Unione europea hanno limiti troppo rigidi rispetto alla commercializzazione dei pesticidi. Sono discorsi legittimi, da parte di chi fa il lobbista. Dal mio punto di vista, il sistema di valutazione europeo è certamente severo ma in questo modo viene anche stimolata un’innovazione profonda nelle tecniche agricole, verso piani di difesa integrati e verso un’agricoltura intelligente, attenta all’impatto ambientale e all’uso delle risorse. La severità su basi scientifiche va vista anche come una spinta all’innovazione.
Se prevalesse un’armonizzazione nel senso della severità europea, quale potrebbe essere l’interesse americano per un Trattato come il TTIP?
L’Europa rappresenta un mercato ampio e costituito da paesi ricchi, nonostante la crisi. In America ci sono pratiche arretrate, ad esempio nel campo della mangimistica, dove si usano ancora additivi all’arsenico per i polli e antibiotici nei mangimi, come trattamento di massa e non come terapia per gli animali malati, con preoccupanti ricadute sull’efficacia degli antibiotici negli esseri umani. Un altro aspetto, su cui l’Unione europea ha preso una posizione ferma, più cautelativa e scientificamente più avanzata rispetto agli Stati Uniti, riguarda l’utilizzo degli ormoni nella produzione di carne, in particolare di quella bovina, una pratica di cui non è dimostrata la sicurezza. Inoltre, come ha sottolineato l’Efsa in un suo parere, gli Stati che consentono l’utilizzo di ormoni poi non effettuano controlli sui residui di questi ormoni nelle carni. Dal mio punto di vista di esperto di sicurezza alimentare mi viene da dire che l’apertura del mercato europeo potrebbe avere un riflesso positivo sul sistema americano, da una parte come stimolo all’innovazione nel campo della sicurezza e dall’altra favorendo l’adozione di un controllo più integrato e più di filiera. Naturalmente, all’Unione Europea spetta il compito di difendere e valorizzare la forza e i vantaggi del proprio sistema a tutela della qualità e sicurezza degli alimenti. (Intervista raccolta da Beniamino Bonardi – Il Fatto alimentare – 14 marzo 2014)
L’APPROFONDIMENTO DEL SOLE
NELLA UE VIGE IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE. NEGLI STATI UNITI IL PRODOTTO FINALE NON FA MALE FINO A PROVA CONTRARIA
Il Parmigiano non si fa nel Wisconsin» urlavano centinaia di produttori della Coldiretti in piazza a Bologna. Ma se Parmigiano e “parmesan” convivranno o meno, sugli scaffali dei supermercati, o se il vero parmigiano italiano riuscirà finalmente ad arrivare in Wisconsin, dipenderà molto dagli esiti del Ttip – Transatlantic Trade and Investment Partnership – il potenziale accordo di libero scambio Usa-Ue in discussione dal 2013 ma che nelle ultime settimane sta conoscendo una forte accelerata. Obama vorrebbe metterlo tra i suoi trofei, prima di chiudere, entro l’anno, il mandato. L’Europa (e soprattutto la Germania), sinora restia, sa che va chiuso prima dell’accordo “fratello” con i Paesi dell’Asia del Pacifico Ttp (Transpacific Partnership, se non vuole perdere centralità e trasferire il baricentro delle regole e del business a Oriente.
In più, per i sostenitori, il Ttip – coinvolgendo 800 milioni di cittadini e due economie (Usa e Ue) il cui Pil globale è la metà di quello mondiale – comporterebbe un aumento annuo dello 0,50% del Pil europeo e raddoppierebbe le esportazioni verso gli Usa. Una manna per l’Europa, ancora in cerca di una “exit strategy” dalla crisi. E comunque un impatto notevole anche per il comparto agroalimentare in Italia, la cui filiera vale circa 250 miliardi di euro (il 15% del Pil nazionale). Il timore – di operatori e consumatori – è che si baratti qualche punto di Pil con la qualità dei nostri alimenti, ma soprattutto delle regole europee sulla sicurezza alimentare.
L’approccio di Usa e Ue, nel settore alimentare, è opposto. In Ue vige il principio di cautela: non si commercializza un prodotto o una sostanza che potrebbe essere rischioso per la salute fino a quando non è provata, con dati scientifici, l’entità del rischio. Controllo ex ante. In Usa è l’opposto: il prodotto non fa male fino a prova contraria. Controllo ex post.
Come trovare un compromesso tra approcci così antitetici? Negli allevamenti intensivi statunitensi, si fa utilizzo massiccio di ormoni e antibiotici. In Europa il trattamento del bestiame con anabolizzanti è vietato. E poi ci sono gli Ogm. Negli Usa gli ettari di colture transgeniche e biotecnologiche, nel 2013, superavano i 70 milioni (dal mais alla soia, dalla barbabietola da zucchero alla zucchina). A gennaio, il Parlamento europeo ha approvato una riforma che dà liberta di scelta ai singoli paesi membri. Favorevoli Spagna e Gran Bretagna, scettici Francia e Germania. Contraria l’Italia. Qui, l’Europa va in ordine sparso. La legge italiana proibisce la coltivazione di prodotti Ogm, ma non la commercializzazione di quelli a bassa percentuale di alterazione. Mentre più complicato è tracciare soia e cereali Ogm importati dagli Usa come mangimi per gli animali.
Pressata da un’opinione pubblica scettica, il commissario Ue al Commercio, Cecilia Malmstroem, la settimana scorsa, ha ribadito: «Non permetteremo che in Europa entri un solo grammo di parmigiano falso, non una bistecca agli ormoni e nemmeno Ogm non approvati dalle nostre parti. Tutti gli studi, meno uno, stimano che l’intesa porterà benessere. Puntiamo a annullare i dazi e stabilire nuovi standard globali, senza rinunciare a nulla». Ed è inutile, a suo avviso, un accordo dimezzato, “un mini-Ttip”. «L’obiettivo – spiega – è cominciare da settembre la volata finale e avere un accordo prima che scada l’amministrazione Obama, altrimenti lo faranno altri. Magari gli stessi americani con gli asiatici».
Infine, c’è il capitolo tutela del “Made in Italy”. Ovvero, etichettatura e salvaguardia dei prodotti Igp e Dop (siamo il Paese europeo che ne ha di più, 249). Da un lato, esportiamo troppo poco (il 20% della produzione nazionale e comunque molto meno anche dei tedeschi). Dall’altro, l’Italian Sounding (la truffa dei falsi prodotti italiani all’estero) ci costa 60 miliardi di euro l’anno (il doppio di quanto esportato l’anno scorso, circa 34 miliardi).
Come ha spiegato Paolo De Castro, relatore del Parlamento Ue per il dossier agroalimentare del Ttip, esistono tre tipi di imitazione: copie registrate di prodotti tipici, copie con marchio non registrato e imitazioni per assonanze di nomi (il vero e proprio Italian Sounding). «Se per le prime due – ha detto De Castro, reduce da un viaggio a Washington per incontrare la controparte – è possibile individuare una soluzione negoziale come nel Ceta (il Trattato Ue-Canada già firmato), nel terzo caso bisogna persuadere gli Usa ad adottare sistemi di etichettatura più chiara, magari contrassegnando l’imitazione con un “made in Usa”».«Senza un compromesso sulle indicazioni geografiche, il Ttip non si chiude – ha ribadito martedì il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda –. Vero è che probabilmente si andrà verso una soluzione di compromesso. E se fosse come quella trovata sul Canada- precisa- andrebbe benissimo». Tuttavia, per il viceministro «non è affatto scontato. È chiaro che senza una sistemazione della situazione sulle indicazioni geografiche l’accordo non è chiudibile. Il progresso del dossier è per noi imprescindibile e lo è anche per la Commissione europea». Il Sole 24 Ore – 14 marzo 2015
15 marzo 2015