Li chiamano ormai, con terminologia da diserzione militare, i «renitenti». Sono i Comuni che non certificano i loro impegni verso i fornitori, ma anche le Regioni che ancora non si decidono a chiedere allo Stato i soldi per pagare i debiti con le imprese. Come la Sicilia, la quale avrebbe due miliardi pronti da spendere.
Perché invece restano nelle casse dell’Erario? Versione del Tesoro: il decreto con cui la scorsa primavera sono stati sbloccati i pagamenti stabilisce che per accedere alle anticipazioni di fondi statali, da restituire in trent’anni, le Regioni debbano assumere l’impegno a tagliare le spese di un importo corrispondente oppure, in alternativa, aumentare le tasse. Due medicine amare, per qualcuno impossibili da ingoiare. E i soldi non si muovono.
Prima di lasciare il ministero dell’Economia, Fabrizio Saccomanni aveva spedito alle Regioni «renitenti» una lettera chiedendo loro di darsi una mossa. Ma senza grossi risultati. Così ora si tratta di passare dalle parole ai fatti. Succederà, a meno di sorprese, domani in Consiglio dei ministri. Dove sarà presentato un provvedimento per chiudere la partita dei debiti commerciali dello Stato. Una operazione che il governo di Matteo Renzi considera cruciale su almeno due piani. Il primo è la soluzione di una faccenda che si trascina da troppo tempo con implicazioni gravissime sulle imprese e sull’intera economia. E che si è rivelata più complicata del previso. L’offensiva innescata dal governo di Mario Monti ha squarciato il velo sul disordine contabile di molti enti locali, incapaci perfino di ricostruire la loro reale situazione debitoria. Casi concentrati prevalentemente nel Mezzogiorno, dove grandi città come Napoli mettono in luce enormi difficoltà amministrative. Per non parlare dei Comuni che hanno accumulato debiti fuori bilancio difficili da giustificare, e quindi complicati da certificare senza andare incontro a problemi seri, come procedimenti per danno erariale a carico di sindaci e assessori. Oppure di quello sterminato universo di società controllate dagli enti locali, la cui esposizione con le imprese sfugge persino alle statistiche rendendo così difficilissimo delimitare l’esatto perimetro dei debiti pubblici.
Il secondo piano è politico. Oltre a essere un fatto di civiltà, pagare in tempi rapidi e senza tentennamenti gli arretrati con i fornitori può essere una contropartita efficace a favore delle imprese: deluse da un taglio del cuneo fiscale che dovrebbe finire tutto o quasi nelle tasche dei lavoratori sotto forma di riduzione delle tasse sul reddito.
Ecco allora che si profilano sanzioni piuttosto pesanti nei confronti dei “renitenti”. Ecco un intervento sulla contabilità degli enti locali, che si baserà finalmente sulla “cassa”, cioè sui movimenti effettivi di denaro, anziché sulla “competenza”. Ecco un’accelerazione all’utilizzo della fattura elettronica, che dovrebbe rendere d’ora in poi impossibile agli amministratori pubblici di mettere la polvere sotto il tappeto. Ed ecco anche qualche soldo in più rispetto ai 47 miliardi già stanziati.
Quanti davvero ne sarebbero necessari per scrivere la parola fine, nessuno (ahimè) lo sa con esattezza. Troppe sono le zone d’ombra che da domani dovranno essere illuminate a giorno. Perché anche su questa vicenda, che si intreccia strettamente con il taglio del cuneo fiscale, il governo Renzi si gioca la faccia. E fatalmente si arriva alla coperta: sempre troppo corta.
Un bel rebus, considerando la carne che è stata messa al fuoco e il proposito, ribadito dal nuovo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, di voler rispettare a tutti i costi il vincolo europeo del 3% nel rapporto fra deficit pubblico e prodotto interno lordo. Tanto più che perfino i più ottimisti sono certi che nonostante l’impegno di Carlo Cottarelli la spending review non potrà impreziosire i conti pubblici di effetti speciali già a partire da quest’anno. Non resta dunque che scavare nelle pieghe del bilancio, utilizzando tutti i margini di flessibilità possibili. I soldi per l’edilizia scolastica, per esempio, già a quanto pare sarebbero disponibili: erano soltanto nascosti, nel senso che non erano mai stati utilizzati. Difficoltà progettuali e burocratiche ne hanno ostacolato l’impiego. Quanto al taglio del cuneo fiscale, bisogna vedere quei 10 miliardi necessari come saranno contabilizzati: se tutti o solo in parte a valere sul 2014. E comunque gli esperti del Tesoro confidano di poter contare su risorse per certi versi inaspettate del bilancio. L’obiettivo del deficit per quest’anno, in vista del traguardo ambizioso del pareggio di bilancio, era stato fissato nel 2,5% del Pil: il che significa avere un margine teorico di mezzo punto senza superare il limite invalicabile del 3%. Otto miliardi di euro o giù di lì. Che in un frangente del genere non si buttano certo via.
Va da sé che la situazione è delicata. Soprattutto dopo le ultime bacchettate di Olli Rehn, e a poco più di tre mesi dall’assunzione della presidenza di turno dell’Unione Europea, non si può neppure ipotizzare di aprire un nuovo contenzioso con Bruxelles. Ed è qui che in soccorso di Renzi può venire (paradossalmente, dopo le schermaglie della settimana scorsa) il dividendo dell’esecutivo di Enrico Letta. Che in un anno difficilissimo, nonostante la crescita negativa dell’economia di quasi due punti, ha tenuto il disavanzo inchiodato al 3%.
Corriere della Sera – 11 marzo 2014