Trasferire subito il 50% del Tfr nelle buste paga dei lavoratori e lasciare l’altra metà alle imprese. Almeno per un anno, più probabilmente per due o tre cominciando dai dipendenti del settore privato. Il rilancio dei consumi e il sostegno alle attività produttive, secondo un piano allo studio del Governo, oltre alla stabilizzazione degli 80 euro e alla riduzione dell’Irap, potrebbe passare anche per un robusto sostegno ai salari percepiti dai lavoratori dipendenti.
Secondo quanto risulta al Sole 24 Ore metà della quota del Tfr “maturando” accantonata mensilmente dal datore di lavoro potrebbe essere erogata direttamente al lavoratore, magari in unica soluzione annuale, e non più al termine della sua vita lavorativa. La scelta spetterebbe comunque al dipendente. Non solo. Il dossier su cui si starebbe lavorando per la messa a punto della legge di stabilità, che il Governo punta a varare il prossimo 10 ottobre, prevederebbe anche la possibilità per le imprese di mantenere una fetta pari al 50% delle liquidazioni. Ma il nodo delle compensazioni alle aziende non sarebbe stato ancora sciolto. Sul tappeto ci sarebbero anche alcune opzioni alternative. Tra le quali la possibilità di mantenere il meccanismo fiscale agevolato attualmente previsto per il trasferimento del Tfr ai fondi pensione. Per evitare problemi di liquidità non sarebbe poi esclusa a priori la possibilità di prevedere un accesso al credito agevolato per il flusso di Tfr da trasferire in busta paga o, in alternativa, un dispositivo ad hoc con il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti.
Quello delle compensazioni alle imprese appare dunque il primo scoglio da superare per far decollare l’operazione sulla quale il Governo non ha ancora preso una decisione definitiva. Altro tema delicato resta la copertura dell’intero intervento soprattutto sul fronte dell’accelerazione dell’esborso di cassa cui dovrebbe far fronte lo Stato con una ricaduta negativa sull’indebitamento. Ci sono poi da affrontare la possibile esclusione degli statali, almeno in prima battuta, e il prelievo fiscale sulle quote di Tfr erogate con lo stipendio o con una sorta di nuova “quattordicesima”. Una cosa è subire una ritenuta di acconto e un’altra è tassare il Tfr con l’aliquota marginale Irpef (anche fino al 43%).
Trasferire direttamente nelle tasche dei lavoratori il 50% della liquidazione nelle intenzioni dell’Esecutivo farebbe comunque aumentare il potere di acquisto delle famiglie. Allo stesso tempo lo Stato potrebbe recuperare maggiori risorse con l’aumento dei consumi a cui sarebbero legati maggiori incassi dell’Iva. E le stesse maggiori entrate Iva potrebbero andare a compensare eventuali perdite di gettito.
L’ipotesi allo studio dei tecnici del Governo Renzi non è una novità assoluta. A proporla negli ultimi anni, seppure in forme diverse, sono stati l’ex ministro dell’Economia nel Governo Berlusconi, Giulio Tremonti, la Lega Nord nel 2011 e nel marzo scorso, direttamente al premier Matteo Renzi, il leader della Fiom-Cgil, Maurizio Landini. Anche Corrado Passera ha inserito nel programma del movimento Italia Unica il trasferimento del Tfr maturando direttamente in busta paga.
Riavvolgendo il nastro emerge che a intervenire sulle liquidazioni dei lavoratori è stato nel 2007 l’allora esecutivo Prodi, con il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, consentendo ai dipendenti privati delle imprese con più di 50 dipendenti di destinare, tutto o in parte, il Tfr ai fondi di previdenza complementare. Una manovra per sostenere il secondo pilastro della previdenza e, allo stesso tempo, anche l’Inps. Infatti la parte di Tfr lasciata nelle aziende ora viene accantonata dal datore di lavoro in un fondo del Tesoro gestito direttamente dall’Istituto nazionale di previdenza. Diversa la disciplina per le imprese fino a 50 dipendenti che trattengono integralmente il Tfr dei lavoratori e che oggi rappresenta una preziosa fonte di finanziamento per la loro attività.
Un flusso da 22-23 miliardi all’anno
L’ipotesi è stata avanzata a più riprese in coincidenza delle varie riforme della previdenza, ma non è mai stata realizzata
Il diritto del lavoratore a un’indennità proporzionata agli anni di servizio svolti risale al 1927 ed è figlio della Carta del lavoro, un’epoca quella fascista in cui non esistevano gli ammortizzatori sociali di oggi. Ipotesi di una sua liberalizzazione dopo la costituzione dell’attuale sistema della cassa integrazione, della mobilità e dell’indennità di disoccupazione, sono state evocate a più riprese, in particolare in coincidenza con il varo delle diverse riforme delle pensioni che si sono succedute negli ultimi vent’anni.
Dal 2007, anno del lancio della previdenza integrativa in Italia, ogni lavoratore dipendente deve decidere, entro sei mesi dalla data di assunzione, se destinare il proprio Tfr da maturare alle forme pensionistiche complementari oppure se lasciarlo in azienda. Nel primo caso fa una scelta irreversibile, nel secondo no. Anche successivamente il lavoratore può infatti decidere di destinare alla previdenza complementare il Tfr futuro, mentre il Tfr già maturato resta accantonato presso il datore di lavoro e sarà liquidato alla fine del rapporto di impiego.
La somma pagata dall’azienda al dipendente quando termina il rapporto, la famosa “liquidazione” si cumula accantonando anno dopo anno una quota pari al 6,91% dell’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso. E la somma raggiunta, al netto della quota maturata nell’ultimo anno, viene rivalutata sulla base di un tasso composto: 1,5% in misura fissa più il 75% dell’aumento dell’indice Istat dei prezzi al consumo rilevato a dicembre dell’anno precedente.
Se il lavoratore decide di non aderire a un fondo complementare di previdenza (è la maggioranza come vedremo tra poco) il suo Tfr prende due strade diverse a seconda della dimensione dell’azienda. Nelle imprese con meno di 50 addetti resta proprio nelle disponibilità del datore di lavoro, mentre per quelle più grandi finisce il fondo tesoreria costituito presso l’Inps.
C’è anche una terza ipotesi: se il lavoratore non fa alcuna scelta esplicita il suo Tfr confluisce automaticamente a una forma collettiva di previdenza complementare prevista dal suo contratto di lavoro o, se non prevista, finisce al FondoInps, la forma pensionistica complementare appositamente istituita presso l’Inps.
Di quali flussi parliamo? Si può stimare utilizzando dati Istat e Inps che ogni anno, su un totale di Tfr maturando di circa 22/23 miliardi, 5,5 miliardi vanno ai fondi pensione, circa 11 restano in azienda e 6 miliardi confluiscono al fondo di tesoreria gestito dall’Inps. Dal 2007 a oggi questo fondo di tesoreria dovrebbe aver cumulato circa 35 miliardi. Al FondoInps arrivano invece solo pochi milioni residui l’anno.
Come si diceva la previdenza complementare non ha avuto finora un grande successo nel nostro Paese. Nonostante la granitica certezza che le future pensioni contributive saranno molto più povere dei vecchi assegni calcolati con il sistema retributivo (soprattutto per i giovani e le donne con carriere lavorative assai discontinue) meno del 30% dei lavoratori oggi ha un forma di previdenza complementare. Secondo gli ultimi dati Covip rilanciati dall’ultimo bollettino statistico Mefop a fine 2013 poco più di 6,2 milioni di lavoratori ha aderito a una forma di previdenza complementare, il 27,7% del totale. La frequenza è un po’ più altra tra i dipendenti del settore privato (4.355.970 pari al 32,2% del totale) rispetto agli autonomi (1.687.530, pari al 30,4%). Incredibile il dato dei dipendenti pubblici: su 3,3 milioni di occupati solo 160mila (il 4,8%) ha aderito a una qualche forma di previdenza complementare. Dietro questa “non scelta” ha senz’altro pesato la mancanza di un programma nazionale di informazione previdenziale; un piano di cui molte volte s’è parlato ma che non è mai decollato.
Il Sole 24 Ore – 24 settembre 2014