di Maurizio Ricci. La sindrome Giappone e il suo ventennio di sviluppo perduto, inghiottito dalla deflazione? Probabilmente ci siamo già dentro. Ormai, stabilire se l’Italia sia o no in deflazione è diventato un dettaglio statistico. A luglio i prezzi sono scesi dello 0,1% rispetto a giugno, ma fa anche più impressione che, in un anno, dal luglio 2013, siano cresciuti solo dello 0,1%.
Un dato – la media nazionale – peraltro illusorio. La verità è che, per gran parte degli italiani, anche la soglia dell’inflazione zero è un ricordo. Rispetto a giugno, a Torino e a Roma i prezzi sono crollati dello 0,5%. A Milano dello 0,3%. Firenze li ha visti scendere dello 0,7%. Una gelata che ha avuto un impatto devastante sull’economia, con il Pil ridotto dello 0,2% fra aprile e giugno. E le prospettive sono pessime, perché il problema non è solo italiano. Nel resto d’Europa non va molto meglio. In Francia, i prezzi non saliranno più di un asfittico 0,6%. In Germania dello 0,8. E, anche qui, l’impatto sull’economia è stato immediato. Ieri, il sondaggio Zew sulle aspettative degli imprenditori tedeschi ha mostrato un pessimismo assai più marcato delle previsioni. Domani, le statistiche probabilmente sanciranno che, nel secondo trimestre, anche il Pil della superpotenza tedesca si è ridotto. Sono tre anni che l’economia dell’eurozona va avanti solo grazie al traino della locomotiva tedesca: se anche la Germania si ferma, la crisi può entrare nella sua fase più cupa.
Crisi ucraina e sanzioni alla Russia sono solo l’ultima goccia e, comunque, successiva al congelamento dell’economia europea dalla primavera in poi. Decisiva, piuttosto, l’erosione, psicologica e materiale, dell’economia che determinano proprio deflazione o inflazione zero. In una società sempre più diseguale, infatti, il calo dei prezzi favorisce i detentori di redditi alti e sicuri. Ma tutti gli altri preferiscono rinviare le spese, in attesa di sconti anche più generosi. O, più semplicemente, non hanno i soldi da spendere, perché neanche i redditi salgono. Gli industriali, infatti, di fronte ad una domanda stagnante, non investono. I salari non salgono, anzi scendono. La domanda si riduce ulteriormente. Gli industriali investono ancora meno. La spirale della deflazione è partita. Ma i danni sono anche più ampi. L’inflazione, infatti, alzando prezzi e redditi, alleggerisce il peso reale dei debiti preesistenti. La deflazione – per gli stessi motivi – lo aggrava. E questo vale anche per la montagna del debito pubblico. Su cui la deflazione agisce perversamente, rendendo più soffocanti i parametri europei. Il rapporto debito/Pil e deficit/Pil contemplano infatti il prodotto nominale, che incorpora cioè l’inflazione. Se il Pil nominale si riduce, debito e deficit risultano più negativi. Il famoso 3% di deficit, scolpito negli impegni italiani, diventa più difficile da tenere. E il rischio è un’altra dose di austerità europea che inasprisca deflazione e recessione, rendendo più veloce la spirale.
Alcuni economisti pensano che questo agosto sia, in realtà, il momento più basso della crisi e che la seconda metà del 2014 sarà migliore. Quello che già sappiamo, tuttavia, è che l’economia europea dovrà risollevarsi, probabilmente, da sola. A Bruxelles, la nuova Commissione comincerà a lavorare solo a novembre. E, a Francoforte, la Bce non sembra intenzionata a intervenire prima di gennaio. Anche se Draghi ripete ad ogni occasione che la banca centrale è pronta ad interventi eccezionali, se necessari, la tregua raggiunta, a giugno, fra falchi e colombe all’interno del board della Bce prevede, infatti, che si dia tempo alle misure straordinarie decise due mesi fa di manifestare i loro effetti. Il problema è che molti pensano che quelle misure siano, fin dall’inizio, insufficienti. Lo pensa, in particolare, l’Fmi che, ormai da mesi, martella l’Eurotower perché imbocchi la stessa strada scelta, da tempo, dalle altre grandi banche centrali e finora rifiutata dalla Bce, per la decisa opposizione tedesca: acquisto massiccio di titoli per ridare fiato al credito e alla domanda. Francoforte ha preferito limitarsi ad una nuova iniezione di liquidità, attraverso le banche, ma, recentemente, in un blog assai pubblicizzato, i massimi dirigenti del Fondo per l’Europa hanno contestato la scelta come timida e inefficace.
Il Qe (quantitative easing) rivendicato dal Fmi è divers o dalla iniezioni di liquidità attraverso le banche (Ltro, nel gergo) perché ha un orizzonte superiore ai 3 anni, con effetti psicologici più vistosi, perché è la stessa Bce, non le banche, a decidere quanto comprare sul mercato e perché Francoforte si impegna a comprare fino a che l’inflazione non è tornata all’obiettivo del 2 per cento. Un’operazione da fare, senza falsi pudori, sui titoli di Stato (di tutti i paesi dell’eurozona contemporaneamente), nella convinzione che questi acquisti massicci dai portafogli delle banche migliorino i loro bilanci e rendano più facile ed abbondante il credito alle imprese e alle famiglie. E’ possibile che, come calcola Moody’s, un Qe all’europea abbia effetti meno vistosi di quanto avvenuto in America o in Inghilterra. Ma il tempo per attendere sembra sempre di meno
Repubblica – 13 agosto 2014