Il cantiere è aperto, e la costruzione si sta rivelando più complessa del previsto. Per permettere l’anticipo di tre anni dell’uscita dal lavoro, introducendo un elemento di flessibilità nella riforma Fornero, ci sono una serie di equazioni da risolvere per far quadrare i conti. La prima, e probabilmente più difficile, riguarda i meccanismi per contenere il più possibile la penalizzazione sulla futura pensione. Per comprendere bisogna capire bene il meccanismo dell’Ape, l’assegno per la pensione, al quale sta lavorando lo staff di Palazzo Chigi guidato dal sottosegretario Tommaso Nannicini. Per lasciare l’impiego fino a 3 anni prima, ossia a 63 anni e 7 mesi, invece degli attuali 66 anni e 7 mesi, i lavoratori interessati potranno ottenere un prestito che sarà concesso dalle banche ma pagato mensilmente dall’Inps. Quando poi matureranno l’età per la pensione, ossia i 66 anni e 7 mesi, dal loro assegno mensile verrà sottratta una rata per rimborsare questo prestito che ha consentito l’anticipo dell’uscita dal lavoro.
La rata, insomma, costituisce la penalizzazione sulla futura pensione. Non ci saranno altre decurtazioni. L’intenzione del governo, è quella di fare in modo che questa «rata» non incida troppo sulla pensione soprattutto quando il reddito è basso. Dunque, come prima cosa, soltanto fino a una certa soglia di reddito, lo Stato si farà carico degli interessi da corrispondere alle banche sul prestito, restituendoli al pensionato tramite una detrazione fiscale. Ma non c’è solo questo.
IL MECCANISMO
Per provare a mantenere la rata in un range massimo tra il 3% e il 5% per ogni anno di anticipo, il governo starebbe ragionando attorno ad un piano di ammortamento di venti anni. Significa che chi ha ottenuto in prestito i soldi per poter lasciare prima il lavoro, li restituirà a rate costanti per i successivi 20 anni. Non è una questione secondaria. Oggi, secondo i calcoli statistici, le pensioni vengono erogate in media, superstite compreso, per 18 anni. Il periodo di ammortamento del prestito, insomma, sarebbe addirittura più lungo. Per i redditi più bassi (sulla soglia si sta ancora discutendo), inoltre, lo Stato probabilmente si farà carico anche di una quota del rimborso della parte capitale del prestito oltre che degli interessi. E questo sempre per provare a contenere al minimo la penalizzazione in questi casi. Per i redditi più alti, invece, lo Stato potrebbe lasciare a carico del pensionato, non solo la restituzione della parte capitale del prestito, ma anche degli interessi. In questo caso la penalizzazione per ogni anno di anticipo sarebbe decisamente maggiore, e potrebbe arrivare anche all’8-9%, rendendo decisamente poco conveniente aderire all’anticipo pensionistico.
Un altro punto che sarebbe stato chiarito, è che a poter lasciare fino a tre anni in anticipo il lavoro, non saranno soltanto i dipendenti privati, ma la possibilità sarà data anche ai dipendenti pubblici. Un’apertura che potrebbe interessare soprattutto le donne «statali» che oggi vanno già in pensione a 66 anni e 7 mesi mentre le colleghe del privato, dopo l’aumento scattato a inizio di quest’anno, possono ancora lasciare un anno prima. Che di limature al progetto del governo ce ne siano ancora da fare, lo dimostrano anche le parole pronunciate ieri dallo stesso Nannicini, che ha aggiornato il timing del confronto con i sindacati su pensioni e lavoro spostandolo a giugno. (Il Messaggero)
Ape con anticipo della pensione integrativa. Spunta la «Rita». Costo della flessibilità a 500-600 milioni
Si chiama «Rita». È l’acronimo di «Rendita integrativa temporanea anticipata». Ed è destinata a consentire al lavoratore “over 63”, che ha aderito alla previdenza complementare ed è intenzionato a utilizzare la flessibilità-pensioni, la possibilità di incassare parte della pensione integrativa per ridurre l’impatto dell’Ape (Anticipo pensionistico). Con il “vantaggio” di poter ridurre (anche dimezzare) il “prestito” bancario che consentirebbe di usufruire dell’assegno previdenziale anticipato. È l’ultima ipotesi di lavoro spuntata sui tavoli tecnici della cabina di regia economica di Palazzo Chigi, guidata dal sottosegretario alla Presidenza, Tommaso Nannicini, che sta ulteriormente affinando il dossier per rendere flessibile la riforma Fornero.
Nel mosaico che si sta componendo per consentire l’uscita anticipata agli over 63 (i nati tra il 1951 e il 1953) con un assegno più o meno ridotto rispetto al trattamento di vecchiaia pieno, sulla base della categoria di appartenenza (disoccupato di lungo corso, lavoratore interessato da processi di ristrutturazione aziendale e uscite volontarie) e del reddito pensionistico, ci sono già alcune tessere inamovibili, mentre altre sono ancora ballerine. Tra i punti fermi c’è anzitutto il meccanismo del prestito, che sarà garantito dalle banche (sotto forma di cessione di prestito individuale) con un’assicurazione sui rischi collegati al processo di restituzione e senza un’esplicita garanzia pubblica. Anche la tempistica è ormai definita: si partirebbe con una sperimentazione di tre anni (per i nati dal 1951 al 1953, appunto), che dovrebbe riguardare anche i dipendenti pubblici, con l’obiettivo di rendere successivamente strutturale l’intervento.
Altre due tessere già inserite nel mosaico-flessibilità sono quelle degli oneri complessivi per la finanza pubblica, che non dovrebbero superare i 5-600 milioni di euro, e la durata dell’ammortamento per la restituzione a rate del prestito percepito per usufruire dell’assegno pensionistico anticipato: 20 anni. Certo è anche il ricorso alla certificazione dell’Inps. Con la possibilità per l’ente di diventare una sorta di snodo chiave di tutta l’operazione. Un altro punto fermo è il ricorso a detrazioni fiscali che scatteranno una volta percepito l’assegno anticipato innescando così uno dei meccanismi di selettività: saranno maggiori per chi ha redditi bassi e per i disoccupati di lungo corso in condizione chiaramente disagiata con conseguente quasi azzeramento della decurtazione dell’assegno anticipato (la traduzione in “penalizzazioni” del meccanismo del prestito) e più elevate per chi possiede redditi più alti e per le uscite volontarie, a carico delle aziende nei casi di ristrutturazione.
Ma una delle tessere ancora ballerine è proprio quella della calibratura delle “penalizzazioni”. La decurtazione media dovrebbe essere del 3-4%, ma sull’individuazione del punto minimo e del punto massimo ci sono ancora diverse opzioni sul tavolo. Questa gamma di “curve” sarebbe sotto la lente del sottosegretario Nannicini, che deve trovare la soluzione di equilibrio anche in prospettiva attuariale, tenendo conto non solo del pressing dei partiti e dei sindacati, ma anche dei vincoli dell’Europa. Con penalizzazioni troppo basse, e quindi generalizzate, si rischierebbe infatti di sconfinare nel terreno degli aiuti sociali a tutto campo che su questo versante è invece considerato impraticabile dall’Europa. Una maggiore gradualizzazione, con una forbice marcata tra il punto più basso e il picco più alto, garantendo decurtazioni molto soft solo a particolari categorie realmente disagiate, consentirebbe invece di superare tutti i test europei e di scongiurare il rischio di uno sfruttamento della flessibilità da parte degli interessati anche per altri fini (casi di non reale necessità). Tra i nodi da sciogliere ci sono poi quello dei lavoratori autonomi e del ricorso a strumenti accessori come la totalizzazione, un diverso meccanismo per il riscatto della laurea e gli accorgimenti per gli “usuranti”. (Il Sole 24 Ore)
31 maggio 2016