La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nella riunione del 18 ottobre, ha analizzato il disegno di legge che stabilisce norme per valorizzare le piccole produzioni agroalimentari locali e ha licenziato un documento di osservazioni sul provvedimento. Si riportano di seguito le proposte delle Regioni (pubblicate anche sul portale www.regioni.it) che sono state consegnate al Governo in sede di Conferenza Stato-Regioni e trasmesse alle commissioni parlamentari.
Il disegno di legge appare mirato ad introdurre procedure semplificate, al fine di consentire ai piccoli produttori agricoli e ittici di commercializzare, direttamente, piccoli quantitativi dei loro prodotti, in un ambito locale. Quindi, tende ad identificare, per una definita tipologia di impianti – aventi ambito di vendita locale, gli imprenditori agricoli che possono operare la vendita diretta, i quantitativi e le tipologie di produzione consentite, nonché i requisiti strutturali, il marchio di identificazione ed il percorso formativo codificato.
Il Sistema delle Regioni e Province Autonome, ha individuato una serie di criticità sia su alcuni aspetti generici, ma anche necessità di alcuni approfondimenti puntuali sui singoli articoli, così come di seguito riepilogati.
Questioni e criticità di carattere generale
Intanto un’eccezione di carattere procedurale: il DDL tocca alcuni aspetti di carattere sanitario, (materia di legislazione concorrente, in cui lo Stato può legiferare solo per determinare i principi fondamentali), unitamente ad altri prettamente agricoli e commerciali e quindi non rientranti tra le competenze legislative dello Stato. A meno che non si voglia intendere che l’istituzione del marchio PPL (peraltro non supportato da alcun sistema di certificazione) sia sufficiente a far rientrare la legge all’interno della categoria “opere dell’ingegno” al pari delle indicazioni geografiche o “tutela della concorrenza”. Alcuni articoli prevedono che l’attuazione della legge sia regionale ma è già il Titolo V della Costituzione a stabilirlo per cui ha poco senso una disposizione legislativa nazionale in materia. A ulteriore dimostrazione della competenza prevalentemente regionale, si ricordano le esperienze già maturate dalle Regioni, Veneto e Friuli Venezia Giulia, che già da anni hanno avviato iniziative similari. Il Friuli Venezia Giulia, in particolare, consente ai produttori primari di effettuare alcune trasformazioni della propria materia prima, ovvero di esercitare attività postprimarie, senza dover sostenere gli alti costi per la realizzazione di un laboratorio completo, ma seguendo gli appositi Manuali di Buone Pratiche e semplicemente adattando ai requisiti igienico-sanitari un locale della propria abitazione. Sono previsti controlli molto rigorosi, che prevedono addirittura un prelievo di campione per ogni lotto e l’impossibilità di commercializzare il lotto fino a quando non sarà pervenuto l’esito conforme delle analisi. Sul sito del Ministero della salute si evidenzia, come criticità, la scarsa adesione al progetto PPL da parte dei produttori. Rispetto a questa esperienza regionale a carattere sperimentale, nel DDL 728 invece non è ben definito il livello di sicurezza alimentare che si pensa di ottenere né quali semplificazioni vengono introdotte rispetto a una normativa che già consente molte delle operazioni descritte. In definitiva il presente DDL prefigura due possibili scenari:
– un’eccessiva deregulation, che potrebbe creare rischi di sicurezza alimentare e di concorrenza sleale delle produzioni PPL, a scapito di quelle ottenuti in condizioni ordinare;
– la creazione di un sistema che impone all’operatore di rispettare, grosso modo, gli stessi vincoli attualmente esistenti, rendendolo di fatto, quindi, poco utilizzabile.
– un’eccessiva deregulation, che potrebbe creare rischi di sicurezza alimentare e di concorrenza sleale delle produzioni PPL, a scapito di quelle ottenuti in condizioni ordinare;
– la creazione di un sistema che impone all’operatore di rispettare, grosso modo, gli stessi vincoli attualmente esistenti, rendendolo di fatto, quindi, poco utilizzabile.
Si fa presente che nell’ordinamento italiano esistono già strumenti e sistemi di valorizzazione delle produzioni legate al territorio, ben strutturati e collaudati, che tutelano con maggior chiarezza sia le produzioni che gli operatori e i consumatori, quali per esempio le indicazioni geografiche, i prodotti agricoli tradizionali, l’indicazione facoltativa prodotto di montagna. Un recente Regolamento UE, infatti, individua le aziende che possono fregiarsi della denominazione “prodotto di montagna”, che copre parzialmente questo settore, individuando già uno specifico marchio di identificazione. D’altro canto, l’introduzione di un nuovo marchio oltre che costituire un ulteriore aggravio per le aziende, potrebbe creare un ulteriore elemento di confusione per il consumatore specie se la vendita dovesse avvenire tramite esercizi commerciali.
In diverse Regioni, pur non essendoci un marchio e un logo per identificare la tipologia di impianti in questione, sono, in ogni caso, applicati tutti i criteri di semplificazione previsti per le piccole realtà produttive, analogamente a quanto descritto dall’art. 6 del DDL.
Sono stati tracciati, infatti, processi di semplificazione specifici, in coerenza con le norme comunitarie, quali:
– linee di indirizzo per la semplificazione dell’applicazione del sistema HACCP nelle microimprese del settore;
– linee guida di buone pratiche di igiene e di lavorazione, anche in alpeggio (documento condiviso da diverse Regioni dell’arco alpino ed il Ministero della Salute, che fissa i requisiti base di igiene e buona prassi che devono essere adottati nelle strutture di caseificazione in alpeggio.
– linee di indirizzo per la semplificazione dell’applicazione del sistema HACCP nelle microimprese del settore;
– linee guida di buone pratiche di igiene e di lavorazione, anche in alpeggio (documento condiviso da diverse Regioni dell’arco alpino ed il Ministero della Salute, che fissa i requisiti base di igiene e buona prassi che devono essere adottati nelle strutture di caseificazione in alpeggio.
Per quanto concerne, inoltre, l’attività di formazione preme evidenziare che ogni Regione ha la propria forma organizzativa ed il proprio sistema di deleghe, pertanto appare pleonastico delegare l’attività formativa alle Regioni o alle Province autonome.
Il DDL presenta, infine, ambiti di non completa chiarezza quali quelli di seguito evidenziati:
1) non è chiaro se la normativa si rivolge esclusivamente alle aziende che effettuano la somministrazione e/o la vendita diretta dei propri prodotti al consumatore finale, come indicato all’articolo 1 comma 2, o se invece è possibile la commercializzazione di tali prodotti tramite intermediari (esercizi commerciali), come esplicitato invece all’articolo 5 comma 1 lettera C e, ancora, al comma 3 dello stesso articolo;
2) occorre chiarire se, come pare, tutte le operazioni necessarie all’ottenimento del prodotto finito (quindi, oltre alla produzione primaria, anche lavorazione, trasformazione, confezionamento ecc.) devono essere effettuate dall’azienda o se alcune fasi possono essere realizzate da soggetti terzi;
3) occorre chiarire alcuni aspetti sul funzionamento dell’intero sistema, in pratica se trattasi di una vera e propria richiesta presentata dalle aziende alle Regioni (che devono quindi svolgere, su ogni domanda, una attività istruttoria circa il rispetto dei requisiti prima di concedere l’uso del marchio) o di un sistema semplificato di autodichiarazioni con controllo a posteriori (come ad esempio nel recente caso dell’indicazione facoltativa di qualità “prodotto di montagna”);
4) occorre chiarire se questa normativa “interagisce”, in qualche modo, con quella ormai ventennale relativa ai prodotti agroalimentari tradizionali, per i quali è già peraltro prevista la possibilità di richiedere deroghe (seppur di carattere generale) sotto il profilo igienico sanitario;
5) si ritiene utile, se non proprio, indispensabile, ottenere da ora delle indicazioni più precise circa il “Paniere PPL”, ovvero circa le tipologie e quantità di prodotti che le aziende potranno commercializzare tramite questo sistema “privilegiato”.
Passando all’esame puntuale del testo le Regioni e le Province autonome ritengono che alcuni passaggi andrebbero approfonditi, chiariti ovvero riformulati:
Criticità/Questioni puntuali
Articolo 1
Dai principi elencati non è agevole comprendere la potenzialità del DDL. In particolare, il principio di limitatezza, cioè la possibilità di produrre e commercializzare esclusivamente ridotte quantità di alimenti in termini assoluti e quello di specificità, cioè la possibilità di produrre e commercializzare esclusivamente le tipologie di prodotti individuate da un successivo decreto, così come vengono enunciati, determinano un margine di incertezza molto ampio. Occorre, quindi, specificare cosa si intende per “produzione dell’alimento” e “piccole quantità in termini assoluti”, nonché quanto previsto alle lettere d) ed e), le quali introducono un limite alla capacità d’impresa.
Nella definizione di PPL si ritiene opportuno aggiungere al “prodotto agricolo” anche quello “agroalimentare”.
Articolo 2
Il dlgs 4/2012 definisce l’imprenditore ittico e le attività di pesca professionale, equiparandolo, tra l’altro, all’imprenditore agricolo, mentre non definisce l’azienda ittica. Inoltre, per completezza, si dovrebbe citare anche l’acquacoltore, disciplinato dall’articolo 5 del dlgs 4/2012. Si ricorda che è previsto anche l’istituto dell’ittiturismo, che, il citato dlgs 4/2012, annovera tra le attività di pesca professionale.
Il comma 1, dà la possibilità alle aziende di aderire anche in forma associata, andrebbe specificato, però, che le aziende devono essere ubicate nella stessa provincia altrimenti il concetto di vendita all’interno della provincia medesima o delle province contermini perde di significato. Inoltre, per evitare operazioni poco trasparenti, la Regione Veneto, ad esempio, esclude espressamente le aziende che si siano associate appositamente, ai fini di avvantaggiarsi della normativa sulle PPL. Si chiede, inoltre, di chiarire cosa si intenda per aziende agricole o ittiche associate
Il comma 2 non appare chiaro, né comprensibile, nella parte relativa a …. Gli imprenditori agricoli nell’ambito dell’attività di agriturismo che, qualora scelgano di produrre nella propria azienda un prodotto del “paniere PPL” di cui al comma 1 articolo 10, non possono produrre analogo prodotto al di fuori delle modalità previste dalla presente legge;
Non è chiaro, infatti, perché il divieto di produrre il medesimo prodotto PPL anche al di fuori del regime previsto dalla legge sia riferito, come sembra, solo all’agriturismo. Esiste una legge nazionale sull’agriturismo e delle leggi regionali già attive che specificano che le produzioni degli agriturismi devono essere in prevalenza aziendali o comunque locali, in pratica che le aziende agrituristiche possano avvalersi di PPL di altre aziende agricole.
Il comma 3 fornisce una serie di precisazioni circa la produzione primaria, ma nulla dice in merito alla trasformazione. Ci si chiede, pertanto, se può forse essere effettuata al di fuori dell’azienda. Dalla lettura dell’articolo 1 parrebbe che sia la produzione che eventualmente la trasformazione debbano avvenire nell’azienda interessata, principio tra l’altro condivisibile, non si capisce quindi perché in questo comma si faccia questa ulteriore specificazione, limitandola alla sola produzione.
Inoltre, il comma 3 non considera le aziende previste dall’articolo 2135 del CC definite senza terra quale ad esempio apicoltura.
Articolo 3
Al comma 1 sarebbe opportuno specificare cosa si intende per “numero di registrazione” per non creare confusione con registrazioni di attività commerciali o altro. Per alcune Regioni si potrebbe modificare in: ………………. numero di registrazione dell’attività ottenuto a seguito dell’iscrizione ……
Inoltre, non è chiaro se si debba usare il marchio (se mai ci dovesse essere) o la dicitura PPL. E’ volontà del legislatore lasciare libera scelta?
La seconda parte del comma, infatti, risulta apparentemente in contrasto con la prima parte del comma 5 dell’articolo 4 laddove, in un caso la dizione PPL sulle etichette risulta essere obbligatoria, mentre l’uso del marchio può avvenire a scopo occasionale.
Articolo 4
Manca il riferimento al regolamento d’uso del marchio, anche al fine dei controlli e delle sanzioni/infrazioni di cui all’articolo 9.
Al comma 2 si propone di eliminare il riferimento alle regioni quali concessionari del marchio. L’attività è onerosa dal punto di vista organizzativo ed economico. Tutti i sistemi sia pubblici che privati che gestiscono un marchio collettivo prevedono soggetti terzi accreditati che rilasciano e controllano l’uso del marchio. Tale disposizione, tra l’altro, appare in contrasto con l’articolo 11, in quanto non solo l’applicazione della legge prevede un costo aggiuntivo per la pubblica amministrazione, ma è onerosa anche per l’operatore. Non appare congruente che il marchio PPL sia istituito dallo Stato ma poi debba essere richiesto alle Regioni. Di chi è la proprietà? In caso di sospensione o revoca chi è che decide? Si nutrono poi dei dubbi sull’opportunità di istituire un ennesimo marchio. I marchi vanno divulgati e per questo occorrono risorse che non sono previste dalla legge, altrimenti si rischia solo di alimentare ulteriore confusione nel consumatore. Come funziona la licenza d’uso del marchio? Sarà una semplice comunicazione (di fatto autocertificazione dei requisiti) come per il prodotto di montagna o ci sarà una istruttoria? In tal caso chi dovrà farla? In ogni caso serve una modulistica dettagliata e uniforme
Il comma 3. Non chiarisce adeguatamente lo scopo del marchio: evidenzia il prodotto o il produttore?
Circa il contenuto del comma 5, In linea di massima andrebbero valutati i costi benefici per i piccoli produttori di dover adottare una procedura per l’ottenimento di un marchio relativo alla vendita diretta o simili. Pertanto, propendendo in linea prioritaria per lo stralcio dell’articolo 4, si ritiene in ogni caso che in caso di mantenimento del marchio il suo uso debba limitarsi in via esclusiva al solo prodotto (salame, formaggio, vasetto, etc) onde evitare che possa trasformarsi in un marchio pubblicitario aziendale senza riscontro di una reale produzione di PPL.
Articolo 5
Occorre coordinare questa disposizione con quanto già previsto all’articolo 4 (Esercizio dell’attività di vendita) del dlgs 228/2001, novellato con l’ultima legge di bilancio, dove già si prevedono, tra l’altro, disposizioni per la vendita dei prodotti primari e dei trasformati nei mercati, i limiti dei ricavi di vendita, le procedure semplificate per l’inizio attività e i requisiti dei locali.
Al comma 1 non è chiaro perché si possa commercializzare nelle province contermini ma solo nell’ambito della medesima regione. Nel caso di aziende poste al confine di una regione, si potrebbero commercializzare prodotti a 100 km di distanza nell’ambito della stessa regione mentre sarebbe vietato commercializzarli a 1 km di distanza nella regione limitrofa (ciò non è coerente con il principio della localizzazione enunciato all’art. 1.
Con riferimento al comma 2 ci si chiede se i Comuni possono o debbano riservare delle quote ai produttori di PPL. Va detto in maniera esplicita che i Comuni possono destinare spazi…. purchéquesti rappresentino almeno il 20% della superficie… (se questa è l’interpretazione giusta, è possibile sia che non si dia nessuno spazio che si dia uno spazio del 20% mentre non si potrebbe concedere uno spazio del 10%). Dalla formulazione di questo articolo emerge ancora una volta la contraddittorietà del DDL (lo Stato può o non può dare ai Comuni disposizioni di questo tipo?)
Articolo 6 e 7
Si fa presente che l’articolo 2, paragrafo 2 lettera c) del regolamento (CE) 852/2004 così recita:
“2. Il presente regolamento non si applica:
c) alla fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari dal produttore al consumatore finale o a dettaglianti locali che forniscono direttamente il consumatore finale.”
In vero al comma 3 prevede che gli Stati membri stabiliscano, in conformità alla legislazione nazionale, norme che disciplinano le attività di cui al paragrafo 2, lettera c), garantendo comunque il conseguimento degli obiettivi del regolamento.
Quindi questa proposta di legge non dovrebbe fare un mero rinvio agli allegati I e II del citato regolamento, che si applicano anche all’agroindustria, ma adattare tali criteri al caso particolare per dare disposizioni dettagliate non solo in riferimento ai locali, ma anche specificare appropriate procedure basate sui principi del sistema HACCP, nonché stabilire adeguati manuali di buona prassi in funzione della tipologia di operatori.
Il rispetto della normativa igienico sanitaria è indicato in maniera piuttosto generica. Occorrerebbe specificare se e quali deroghe ci sono rispetto alla normativa vigente, altrimenti non è di alcuna utilità riproporre in una legge qualche principio di carattere generale.
Si sottolinea, inoltre, che sono presenti termini troppo generici relativamente alle dimensioni ed idoneità dei locali destinati alle attività.
Trattandosi di “eccezioni” anche importanti l’argomento appare trattato in maniera troppo superficiale; si deroga a norme finora ritenute basilari per tutte le produzioni agroalimentari in quanto fondamentali per la sicurezza igienico sanitaria degli alimenti.
Al comma 6 dell’articolo 7 non risulta comprensibile la formula “accessori all’abitazione”.
Sarebbe opportuno prevedere nell’articolato un atto regolamentare per dare ulteriori specifiche tecniche.
Articolo 8
La disposizione in oggetto prevede che i corsi di formazioni sono facoltativi per le Regioni, stigmatizzando l’obbligatorietà dei corsi per gli operatori. Si sottolineano gli effetti di un difforme comportamento tra le diverse Regioni/Province autonome. Se solo alcune delle Regioni organizzeranno i corsi e altre no, gli operatori non saranno posti tutti nelle stesse condizioni.
Non si capisce la finalità di far rientrare nella formazione regionale questa materia. I corsi sarebbero comunque a pagamento.
Sarebbe utile prevedere uno strumento con il quale definire più puntualmente l’attività formativa, in termini di durata minima del corso, le materie e le ore di formazione specifica, al fine di avere uniformità sul territorio nazionale.
Articolo 9
I controlli spetterebbero solo alle Regioni. Ci si chiede se non sia il caso di coinvolgere anche i Carabinieri e l’ICQRF essendo la materia connessa alle norme di sicurezza igienico sanitaria degli alimenti, la cui violazione è contemplata nel codice di procedura penale.
Inoltre, manca l’individuazione delle infrazioni a questa legge.
Articolo 10
Eliminare il comma 2, in quanto non si ravvisano specifiche competenze regionali.
Infine, la Regione Veneto nell’evidenziare che il DDL è funzionale ad assegnare deroghe di carattere sanitario (comunque all’interno delle norme) per quanto riguarda la preparazione e il confezionamento di prodotti agroalimentari, raccomanda che:
- l’ottenimento della PPL solamente ed esclusivamente da produzioni aziendali (dell’azienda che è titolare della produzione e confezionamento della PPL)
- la stagionalità delle produzioni
- la vendita può esulare dal contesto locale (il soggetto venditore non entra nella catena di controllo), visto che la condizione identificativa si basa su l’origine aziendale, la marginalità rispetto al reddito aziendale, la specificità data dalla definizione a livello di ciascuna regione di un paniere di prodotti PPL (che determina anche la tradizionalità dei prodotti stessi);
- i produttori devono essere formati sulla base di programmi validati dall’autorità competente regionale;
- l’autorità competente regionale predispone per ogni tipologia produttiva in base alla valutazione dei rischi, linee guida per l’autocontrollo;
- condizione fondamentale è che l’etichettatura e l’uso del marchio eventuale devono essere basati su sistemi di autocontrollo (messa a disposizione della autorità competente i risultati analitici dell’autocontrollo) evitando la necessità di avere un ente terzo per certificare il prodotto (con conseguenti aggravio di costi insostenibili per la stessa natura di produzioni marginali delle PPL);
- a livello nazionale sia costituito c/o ISZVE il centro di referenza nazionale per la valutazione del rischio dei prodotti tipici (PPL).
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