Dal nuovo ospedale di Mestre alla Cittadella della salute di Treviso, dal nuovo polo sanitario di Schiavonia d’Este agli impianti tecnologici di Camposampiero e Cittadella. E poi i nuovi ospedali di Castelfranco e Montebelluna, la ristrutturazione di Borgo Trento e Borgo Roma a Verona, il nuovo ospedale unico dell’Alto Vicentino. Solo le province di Belluno e di Rovigo ne sono state risparmiate: ma si sa che i montanari non si fidano dei veneziani e i rodigini son pochini. Negli ultimi dieci anni la parola magica era «project» (tanto i soldi li mette il privato). Peccato che non si trattasse di mecenatismo ma semplicemente di business: il privato costruisce subito ma si garantisce per trent’anni la concessione di pulizie, pasti, energia, diagnostica, parcheggi. Un rendimento, per i privati, a due cifre. Un affitto capestro per il pubblico, che ammette così la propria incapacità di oculata gestione.
Più di un miliardo e trecento milioni di euro di investimenti per rinnovare la rete ospedaliera del Veneto. Ma così ci siamo giocati una generazione di debiti: per un project da cento milioni di euro il «canone» a favore delle imprese concessionarie può sfiorare anche i trenta milioni l’anno. Quello di Mestre, ad esempio, scadrà nel dicembre 2031, quello di Santorso addirittura nel 2036.
Nove contratti di progetto di finanza in campo ospedaliero sono stati sottoscritti o semplicemente siglati in attesa di aggiudicazione. La larga parte si deve all’epoca in cui il Veneto era guidato da Giancarlo Galan, su cui pende una richiesta di arresto nell’inchiesta sui finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova alla politica. Che la politica dei project non fosse proprio un affare se n’era accorto anche Leonardo Padrin, presidente della commissione regionale sanità, che nel 2010 aveva chiesto al governatore Luca Zaia di «verificare e rinegoziare i project attivi, sospendere e riesaminare quelli ancora in corso». Tre anni più tardi è la magistratura veneziana che sta puntando i riflettori, facendo seguito a un approfondimento in corso da parte della Corte dei conti.
Ad aprire la stagione dei project sanitari fu l’Asl 12 Veneziana per realizzare, tra il 2003 e il 2007, il nuovo ospedale dell’Angelo di Mestre. Un contratto da 250 milioni di euro per una concessione della durata di 24 anni. Demolito il vecchio Umberto I, adesso nel nuovo ospedale si paga il parcheggio (sei euro al giorno) e per avere la televisione in camera occorrono 3 euro e mezzo al giorno (e 5 euro di cauzione per il telecomando). Ad aggiudicarsi la gara è stato il «gotha» dei project del Veneto: Astaldi, Mantovani, Gemmo, Studio Altieri. Imprese i cui nomi compaiono più volte nella ricostruzione della magistratura veneziana come autentici «pigliatutto» degli appalti.
Più o meno gli stessi nomi degli altri project: la milanese Siram a Venezia, Este e Monselice, Cittadella e Camposampiero, la rodigina Guerrato a Castelfranco e Montebelluna, l’impresa Carron a Treviso e Monselice, la Mazzi a Verona, la vicentina Gemmo a Santorso, Monselice, Mestre, Venezia («Nonostante una stampa superficiale e poco corretta, Gemmo spa è totalmente estranea alle indagini legate ai recenti scandali Mose e Galan» ha spiegato nei giorni scorsi l’azienda di Arcugnagno).
E le cooperative rosse? Ci sono sempre, con piccole e grandi quote: a Verona come capogruppo mandataria c’è la storica Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi (con la Ccc e la Manutencoop), a Santorso ancora la Cmb di Carpi, a Castelfranco la Coopservice, a Venezia la Coveco e la Ccc. Insomma, i project sanitari – e quelli sulle infrastrutture – hanno garantito nel periodo più nero dell’edilizia la sopravvivenza alle maggiori imprese di costruzioni del Veneto. Che grazie all’esperienza avviata dalla giunta Galan hanno potuto esportare la loro professionalità: in Toscana, ad esempio, i quattro project degli ospedali di Massa, Lucca, Pistoia e Prato sono stati realizzati dalla cordata del gruppo Astaldi che aveva costruito a Mestre.
L’investimento di capitali privati nella realizzazione degli ospedali, poi, è stato ampiamente scontato dalle banche, cui è stata data in garanzia proprio la sicurezza della gestione per venti o trent’anni. Proprio nell’equilibrio tra apporto di capitale, valore dei servizi dati in concessione e durata della concessione c’è il ritorno per il privato: dalle pulizie e dai pasti di un ospedale si possono ricavare anche dieci o venti milioni l’anno.
Soprattutto con la certezza della durata e del pagamento: le Asl sono pagatori morosi ma assolutamente certi e di questi tempi non è poco. Al palo è rimasto il project del nuovo ospedale di Padova (600 milioni): promesso da Galan e salutato con entusiasmo da Zanonato, con la vittoria di Massimo Bitonci è destinato a tornare nel cassetto. Le imprese già pronte se ne faranno una ragione. Insomma, per «regalare» i nuovi ospedali abbiamo indebitato una generazione di veneti. Ma tanto i soldi li mette il privato, no?
Baita sugli ospedali: decide tutto Lia Sartori
«Il mio rapporto con Lia Sartori era conflittuale»: è per questo che Piergiorgio Baita, ex numero uno della «Mantovani spa» non vinceva né un appalto né un lavoro nella sanità veneta. Se non quando si univa alla «Gemmo». Baita, arrestato nel febbraio 2013, lo spiega diffusamente nel lungo interrogatorio del 6 giugno di un anno fa in procura a Venezia. Lo fa davanti ai pm Ancilotto e Buccini, assistito dagli avv. Ambrosetti e Rampinelli. «Non le ho mai corrisposto somme di danaro in via diretta», precisa Baita, ricordando il rapporto difficile con l’eurodeputata vicentina, per la quale sono stati chiesto gli arresti domiciliari. «Il consorzio credo che abbia finanziato la campagna delle europee del 2009 dell’onorevole Sartori». «Il Consorzio puntava su Sartori… i soldi furono consegnati direttamente dall’ingegner Mazzacurati». Non solo: Baita farebbe riferimento anche ad altri finanziamenti, «in particolare alla associazione di imprese che ha concorso per il project all’ospedale di Mestre».
In quegli anni, dal 2005 al 2010, Sartori è il deus ex machina della sanità veneta: «Le leve della Sartori erano i direttori generali delle Asl, alla cui nomina aveva provveduto in maniera autonoma rompendo i rapporti politici, per cui i direttori potevano essere etichettati in maniera precisa come persone di riferimento dell’onorevole». Ma «Sartori in sanità non ha mai ritenuto di considerare la Mantovani come soggetto di prima battuta, ritenendo che invadesse il campo riservato ai gestori sanitari e in particolare alla Gemmo».
Daniele Ferrazza – Il Mattino di Padova – 16 giugno 2014