Il coronavirus può provocare danni permanenti. Va quindi considerato come una malattia professionale. È questa la «sentenza» della Cgil di fronte ai dati delle denunce di infortunio sul lavoro dovuto al contagio. Durante il percorso di formazione organizzato dal sindacato e dalla Fondazione Di Vittorio è emerso che sino al 31 maggio sono state 673 le denunce di lavoratori padovani presentate all’Inail, per la maggioranza di donne (492). La fascia d’età più colpita è quella tra i 50 e i 64 anni con 271 contagi registrati, segue a poca distanza la fascia 35-49 anni che conta 251 contagi. Nel complesso le denunce vengono soprattutto dal mondo sanitario: nell’86,8% dei casi si tratta di infermieri e se si aggiungono gli operatori socio-sanitari si sfiora quota 90 per cento. «Il nostro obiettivo è far emergere quella che riteniamo una vera e propria malattia professionale e tutelare le persone colpite – dice Gloria Berton della segreteria confederale Cgil Padova –. È molto importante portare a conoscenza dei lavoratori i rischi che corrono e le tutele a cui hanno diritto e questo vale ancor di più se pensiamo ai danni permanenti, a livello repiratorio e cardiaco principalmente, causati dal Covid-19 anche in chi guarisce, come ormai appare dimostrato».
Allargando lo sguardo al Veneto, quarta regione per decessi connessi al Covid-19 (8,5 per cento delle vittime a livello nazionale) e settima per contagi sul lavoro (4,3 per cento delle denunce su scala nazionale), si registrano 3980 denunce di cui 9 riguardano lavoratori deceduti.
Uno scenario che apre a qualche domanda. L’infortunio Covid sarà trattato secondo la normativa vigente? Cosa rischiano i datori di lavoro? Al momento l’iter che si segue è lo stesso per qualsiasi altro infortunio sul lavoro. «Se mi contagio sul posto di lavoro – spiega Berton – è l’Inail che paga il periodo durante il quale mi devo assentare fino alla mia guarigione clinica (ovviamente se si è assicurati Inail, ndr). Nel caso in cui avessi dei postumi posso fare richiesta di malattia professionale o di invalidità attraverso il Patronato Inca».
Non sempre partono contenziosi legali perché bisognerebbe dimostrare che il contagio deriva dalla mancata osservanza del datore di tutte le misure di sicurezza anti-Covid. «Al momento non vediamo una situazione come quella lombarda, dove si è mossa la magistratura – riferisce Enza Scarpa, direttrice Inail Veneto –. Ciò che l’Inail può fare è un’azione di rivalsa: se si dimostra che il datore di lavoro non ha rispettato i protocolli, questi viene obbligato a restituire all’Inail la somma versata al lavoratore durante il periodo di infortunio. Valgono le norme generali che hanno come obiettivo quello di prevenire e si parla comunque di periodi di assenza dal lavoro che vanno oltre i 40 giorni, quindi lesioni gravi o gravissime». Eventuali responsabilità penali devono essere riconosciute dalla magistratura. «Su questo abbiamo una discussione aperta con Confindustria – aggiunge Berton –. Sul tema della salute noi ci siamo già mossi promuovendo in tempi non sospetti, prima che prendesse il via la pandemia, un progetto in Azienda ospedaliera per monitorare la salute di tutti coloro che vi lavorano, compresi gli addetti alle mense, alle pulizie e alla lavanderia. Si tratta di un questionario periodico che mette in luce i problemi nell’ambito della sicurezza sul lavoro e che ora potrebbe essere utilizzato anche per valutare il rischio contagio».
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