Arrocco indignato. Strenua difesa del fortino, con respingimento delle «fameliche orde demagogiche e populiste». Quindi orgogliosa autoassoluzione tra gli applausi, con abbracci e momenti di sincera commozione. Finisce così il dibattito in consiglio regionale sul limite di due mandati «immediatamente esecutivo e retroattivo», come l’avrebbe voluto Leonardo Padrin.
L’alfiere di Forza Italia al momento decisivo ha ritrovato al suo fianco soltanto i compagni di partito (rectius : di mezzo partito, gli ex An di Forza Italia per il Veneto hanno votato compatti contro), i transfughi leghisti del Gruppo misto, il Pd nessuno escluso e Costantino Toniolo di Ncd: troppo poco per riuscire nell’impresa che a maggio avrebbe cambiato i connotati a Palazzo Ferro Fini (27 consiglieri su 60 non si sarebbero potuti ricandidare) e questo nonostante alcune assenze curiose, come quella del presidente del consiglio Valdo Ruffato e quella del leghista Nicola Finco, il più giovane degli eletti con i suoi 27 anni.
Ma siccome alla «bestia dell’antipolitica che non si sazia mai» qualcosa si deve pur dare, ecco che un minuto dopo l’aula ha votato con nonchalance un secondo emendamento, che introduce lo stesso identico limite, a partire però dalla prossima legislatura e dunque con effetti dall’immaginifico 2025 (bocciata pure la proposta del forzista Dario Bond di anticipare almeno al 2020). Con un certo sconcerto da parte di Padrin: «Ma scusate, tutte le enunciazioni di principio e i valori costituzionali di cui ho sentito parlare, dall’inviolabile diritto all’elettorato passivo fino all’implacabile difesa della democrazia, dal 2025 non valgono più?». Gli ha risposto indirettamente Piero Ruzzante del Pd: «Scusate ma qui ci vuole un minimo di coerenza… come fate a votare un emendamento del genere dopo che avete bocciato quello precedente? Non capite che in questo modo la gente domani dirà: ah ecco, allora il problema non era il limite due mandati, ma che il limite venisse applicato a loro!». Ma questo, semmai, è un problema del «popolo elettore» e difatti l’aula ha tirato dritto con 40 voti a favore. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, un limite dal 2025 è pur sempre meglio di nessun limite.
Va detto, però, che tutta la giornata di ieri al Ferro Fini si è dipanata in modo piuttosto stravagante. Nonostante i consiglieri fossero chiamati a votare con una certa urgenza il Veneticum , la nuova legge elettorale, visto che si vota tra soli quattro mesi, l’intero dibattito (all’incirca sette ore) è ruotato attorno all’editoriale del direttore del Corriere del Veneto , Alessandro Russello, pubblicato ieri. Pietrangelo Pettenò di Rifondazione: «Invece di criticare noi, i giornalisti pubblichino i loro stipendi, i contributi pubblici che ricevono, i compensi dei loro precari». Gustavo Franchetto di Futuro Popolare: «E’ offensivo parlare di questo posto come un resort, non accetto accuse di pressappochismo. Se uno proprio vuole si candidi, faccia la campagna elettorale e, se ci riesce, venga qui a vedere quanto lavoriamo». Assist formidabile per il collega di partito Raffaele Grazia, che aveva presentato un emendamento-ripicca chiedendo di introdurre l’incandidabilità dei giornalisti in Regione: «Sapete che c’è? Lo ritiro, tanto i pennivendoli non hanno i voti per farsi eleggere». A nulla è valso l’invito di Lucio Tiozzo del Pd a «rispondere coi fatti in aula, a cominciare proprio da questa legge» e di Antonino Pipitone dell’Idv ad essere «seri» così da evitare «di finire totalmente squalificati agli occhi della gente», il treno dell’invettiva ormai era lanciato a bomba contro la (presunta) ingiustizia. Carlo Alberto Tesserin di Ncd, che il capogruppo leghista Federico Caner vorrebbe vedere «consigliere a vita» (è al Ferro Fini dal 1990), s’infuria: «Possibile che in questi anni i giornalisti abbiano trovato di che scrivere solo cose brutte? Mai una volta che abbia scritto: bravi, non rubate!». Poi c’è Giancarlo Conta, ancora Ncd, che avverte tutti: «Stiamo patteggiando con la stampa», Elena Donazzan di Forza Italia: «La sovranità appartiene solo al popolo» e insomma, ci fermiamo qui anche se si potrebbe andare avanti a lungo (immaginate sette ore…). Resta la curiosità di sapere che ne pensi il governatore Luca Zaia, che in un summit segreto a Tessera con i capigruppo di maggioranza, all’inizio di ottobre, diede il via libera proprio al progetto di legge Padrin.
Lo stesso Zaia, d’altronde, aveva ordinato ai leghisti di tener fede al patto stretto in commissione Affari istituzionali con l’opposizione, che prevedeva il via libera alla doppia preferenza uomo-donna, e anche qui, alla fine, è andata male. Al momento del voto, infatti, l’articolo in questione ha incassato solo 28 voti (ne servivano 31 per avere la necessaria maggioranza assoluta), per via delle assenze strategiche di Forza Italia e della Lega Nord. Le ragioni dello sgambetto? I forzisti dicono che è una ritorsione per la scelta del Pd di appoggiare nella corsa ai «grandi elettori» del Quirinale Ruffato anziché Piergiorgio Cortelazzo («Vanno tanto d’accordo con Ncd, no? E allora i voti li chiedano a loro»), i leghisti parlano di una vendetta per il voto dei democrats a favore dell’emendamento Padrin («Hanno voluto fare i fighi ma i patti erano diversi») mentre il capogruppo padano, Federico Caner, smentisce entrambe le ricostruzione: «Macché ritorsioni, Zaia era stato chiaro: la doppia preferenza andava approvata. Ma in aula era il caos, alcuni colleghi manco sapevano cosa stavano votando…». Intanto Simonetta Tregnago, presidente della commissione Pari opportunità attacca: «La politica ha dato nuovamente prova della sua immaturità e dell’incapacità di ridurre la distanza che la separa dalla società». Risultato: da oggi il Pd voterà contro su tutto e la maggioranza dovrà trovar da sé i 31 voti necessari ad ogni chiamata. Visti i precedenti, auguri.
Marco Bonet – Corriere del Veneto – 22 gennaio 2015