Lavorano dietro le quinte, lontano dalla luce dei riflettori che avvolge talenti più famosi, come la veneziana Marina Cavazzana, «pioniera» delle terapie geniche premiata a Parigi con il rinoscimento Irène Curie di «scienziata dell’anno», o come Ilaria Capua, la virologa acclamata nel mondo per aver sequenziato il virus dell’aviaria e di cui ora l’Italia parla per il mancato trasferimento nella torre della ricerca di Padova.
I suoi colleghi dell’Istituto Zooprofilattico di Legnaro hanno scritto una lettera al nostro giornale per ricordare che in Veneto esiste un esercito di ricercatori altrettanto bravi, che fatica nell’ombra. «Cambiamo il mondo, ma la gente non se ne accorge. Eppure il nostro resta il mestiere più bello del mondo». E’ l’orgoglio degli studiosi che hanno scelto di restare in Italia, nonostante gli stipendi da fame (1124 euro per un neoassunto contro i 2500 dollari dei colleghi americani, intorno ai 1500 per uno confermato, sotto i 2 mila per un professore associato che all’estero ne prende più del doppio), ritmi da 14 ore al giorno tra didattica e laboratorio, guerra fra poveri per accaparrarsi i pochi fondi a disposizione di progetti e attrezzature, carenza di spazi. Ma l’altra faccia della medaglia racconta l’alta qualità degli studi, menti eccellenti, idee innovative, progetti che fanno il giro del mondo. Come il metodo biometrico per sbloccare gli smartphone senza digitare il codice ma con il solo movimento del braccio messo a punto da Mauro Conti, 33enne del Dipartimento di Matematica dell’Università di Padova. «Certo, dal punto di vista dei soldi l’Italia non conviene — commenta — ma scegliere di andarsene solo sulla base dello stipendio è limitativo. Qui c’è un sistema universitario di qualità, come dimostrano l’impatto della nostra ricerca nel mondo e il successo di tanti colleghi all’estero. Io ho scelto di tornare a casa, dopo diverse esperienze per esempio in Olanda e in America che mi hanno aiutato a crescere, perchè amo il mio Paese. Invece di lamentarci, dovremmo agire per migliorarlo».
Ecco, la parola chiave per la sopravvivenza è proprio «reinventarsi». Ci è riuscito Fabrizio Tamburini, 47enne veneziano che dopo una vita da precario all’Università di Padova lo scorso ottobre, scaduto il contratto, grazie a un importante finanziamento concesso da una multinazionale, ha aperto una compagnia di telecomunicazioni. Lui è il cervello che, con una busta paga da 1300 euro al mese, è arrivato a una scoperta sulla rotazione dei buchi neri capace di mettere alla prova la teoria della relatività di Einstein. E che ora, puntando su proprietà della luce e delle onde elettromagnetiche non ancora sfruttate, consegnerà all’industria il metodo per trasmettere più dati sulla stessa frequenza digitale. «Sono dovuto tornare dall’Inghilterra per motivi di famiglia — racconta — e non è facile riadattarsi alla scarsità di finanziamenti e alla poca libertà concessa a enti di ricerca e Atenei. Ma continuo la collaborazione con l’Università padovana e una svedese, perchè è proprio la partnership tra scienziati il valore aggiunto di questo mestiere». Stessa filosofia di Alessandra Rampazzo, la biologa padovana che ha individuato il primo gene della cardiomiopatia aritmogena, causa della morte improvvisa. «Avrei potuto andare a Boston, ma vista l’esistenza nella mia Università di un’équipe multidisciplinare altrettanto qualificata, sono rimasta — rivela —. Ed è stata una scelta vincente, considerati i risultati ottenuti e riconosciuti a livello internazionale. Una soddisfazione doppia, a fronte delle difficoltà quotidiane: non possiamo contare su attrezzature e spazi all’altezza di quelli stranieri e perdiamo molto tempo che potrebbe essere dedicato agli studi per reperire fondi utili a finanziare non solo i progetti ma anche le borse di studio dei colleghi precari. E’ pesante, ti salta un progetto e con esso gli assegni di ricerca per collaboratori preziosi, che non puoi perdere: nel mio team di 7 persone, l’unica strutturata sono io. Il precariato è un problema serio». Impegnata sullo stesso versante di ricerca Cristina Basso, professore associato al Dipartimento di Scienze cardiologiche e consulente della famiglia di Piermario Morosini, il calciatore morto in campo. «Io, figlia di un medico di base molto amato dai pazienti, avrei potuto seguire le sue orme, ma alla sicurezza ho preferito l’incertezza di ciò che mi appassionava — ricorda —. Mi sono specializzata in Cardiologia, poi sono diventata anatomopatologa e ho scoperto le cose un po’ alla volta, con sempre maggiore entusiasmo. Sono stata in Usa e in altri Paesi europei, la loro organizzazione e gestione dei fondi è lontana anni luce dall’Italia, che però spicca per originalità ed eccellenza dei cervelli. E infatti ho trovato più stimoli qui. E’ vero, si guadagna poco, ma la soddisfazione per risultati oltre le aspettative è impagabile».
«Sono fortunata, lavoro in una realtà e con una squadra di eccellenza — si unisce Barbara Molon, che all’Istituto oncologico veneto e al Vimm (medicina biomolecolare) di Padova è impegnata nel potenziare la risposta immunitaria contro il tumore — ma in Italia la figura del ricercatore non è socialmente riconosciuta, soprattutto se non associata al titolo accademico. La gente non sa cosa facciamo, eppure noi siamo il progresso. Il nostro è uno dei mestieri più belli, non lo cambierei». Più critica Cecilia Giron, ricercatrice di Farmacologia a Padova: «E’ una vocazione, una sfida con se stessi, gratificante ma in Italia piena di ostacoli. La meritocrazia non esiste, i fondi vanno ai gruppi con leader più forti, operiamo in ambienti e con attrezzature vecchi, buttiamo via soldi perchè non ci permettono di pubblicare i risultati mancati, utili a dissuadere altre équipe dal perseguirli». Motivi per cui Laura Perin, biologa pluripremiata per l’impiego delle cellule staminali nella rigenerazione renale, si è trasferita a Los Angeles. «Appena ho avuto l’opportunità l’ho presa al volo — confida —. In Italia manca “l’occasione”, a noi giovani difficilmente viene data la possibilità di crescere e di creare un laboratorio nostro, dove sviluppare le idee e diventare veri ricercatori».
Michela Nicolussi Moro – Corriere del Veneto