di Mariano Maugeri dal Sole 24 Ore. Il sindaco Giorgio Orsoni, re Giorgio per i veneziani, abdica e torna a casa. Le sue ultime parole da primo cittadino le rivolge alla coalizione. Due aggettivi che valgono un trattato: «Ipocriti e opportunisti». Ora ci sono venti giorni di tempo per approvare il bilancio. La voragine pure quest’anno viaggia ben oltre i 40 milioni, più i 40 dello sforamento del patto di stabilità del 2013.
I gioielli di famiglia, da Ca’ Corner della Regina al Fondego dei tedeschi, passando per l’ex Pilsen di San Marco, sono stati venduti a Prada, Benetton e Coin. Orsoni, fino all’ultimo, si sarebbe genuflesso a un compratore disposto a sganciare 140 milioni per rilevare il Casinò Municipale di Ca’ Vendramin. Nessuno si è fatto avanti e tutte le trattative sono naufragate di fronte a un accordo siglato tra il primo cittadino e i sindacati in cui si stabilisce che in caso di cessione l’organico di 577 persone con stipendi medi lordi tra i 70 e gli 80mila euro all’anno non si toccheranno fino al 2020. A queste condizioni, nessuno se l’è sentita, malgrado il Casinò continui a macinare 18 milioni di utili l’anno (erano un centinaio fino a una decina di anni fa).
«Venezia è la Napoli del Nord» sentenzia Luigi Boraso, ex Pdl poi confluito nel gruppo “Impegno per Venezia”. La bulimia statalista ha gonfiato all’inverosimile gli organici delle partecipate. Diecimila dipendenti, 3mila al Comune e 7mila nelle partecipate. La legge speciale gestita dal Consorzio Venezia Nuova ha fatto il resto. Troppi soldi, troppi dipendenti comunali, 24 milioni di turisti che calcano campi e campielli. Venezia è una città anarchica e teocratica. Nel senso di ognuno per sé e San Marco per tutti. I centri di potere obbediscono a vecchie liturgie: la Curia, il Consorzio, la sinistra e le coop. Ognuno con i suoi capi, la sua simbologia, i piccoli orticelli. «Tutti vivono di rendite più o meno legittime che si tengono insieme l’una con l’altra» spiega l’avvocato Alessio Vianello, ex assessore della giunta Cacciari alla fine degli anni ’90. Mestre, che da tempo ha capito la malaparata, ha raccolto in pochi mesi 10mila firme per ritentare (è la quinta volta) la secessione da Venezia con la celebrazione di un referendum. Le spinte centrifughe in una terra di indipendentismi non sono una novità. Stavolta però nella raccolta delle adesioni si sono uniti i veneziani del centro storico, stufi anche loro di essere stritolati dalla somma di due debolezze. I mestrini pagano una tassa dei rifiuti proibitiva. Ripulire il centro storico con ramazza e carrellini che poi vengono calati sulle barche-gru è dispendioso. Le entrate del Comune valgono 1,1 miliardi. Tanti soldi ai quali potrebbero aggiungersene altrettanti. I ricchi del pianeta amano Venezia ma non investono neppure un centesimo. Peggio: la valorizzazione di 18 immobili del Comune, compreso l’Ospedale al mare del Lido, è stata affidata a una Sgr poi fallita, il fondo Real Venice 2 di Est Capital, partecipato dall’onnipresente Mantovani.
«Ora dobbiamo ricostruire l’etica pubblica e pensare al bene della città» dice Marta Locatelli, pure lei transfuga del Pdl dopo una breve parentesi tra le fila degli alfaniani. Sarà un caso, ma sotto la regia di Orsoni non un progetto di rilievo è andato in porto. La città dei monopoli blocca tutto attraverso un sapiente di gioco di incroci conservativi. Pure il buco del nuovo palazzo del Cinema del Lido, scavato dai soliti noti, acclara l’impotenza di una città crepuscolare. Così come quel monumento al nulla che è Marghera, Mar’ ghera, dove c’era il mare, 120 ettari di fronte lo skyline più fotografato al mondo. A capo del commissariato per il disinquinamento c’era Giovanni Artico, pure lui tra i 35 arrestati dell’affare Mose. Malgrado la chimica di base fosse morta da un pezzo, sindacati e i sindaci che si succedevano a Ca’ Farsetti si ostinavano a parafrase Rosa Luxemburg: «O la chimica o la barbarie». C’è da rimpiangere il dinamismo e la visione del conte Giuseppe Volpi di Misurata, l’inventore del Festival del Cinema di Venezia che nel 1906, quasi contemporaneamente, fondava la Ciga, Compagnia italiana grandi Alberghi, e la Sade, la Società adriatica di elettricità che avrà un ruolo fondamentale nella nascita dell’area di Porto Marghera ma anche nel disastro del Vajont. Adesso il Tronchetto, l’avanguardia di Marghera, è una terra di nessuno popolata da un megaparcheggio e dagli intromettitori armati di walkietalkie, il singolare incrocio tra un camorrista e Totò che vende la Fontana di Trevi. Caricano i turisti ignari sulle loro lance e li arruolano negli improbabili tour turistici, hotel e ristoranti compresi, a prezzi da strozzinaggio. Quattro anni fa il Pm Stefano Ancillotto, uno dei tre sostituti dell’inchiesta Mose, chiese e ottenne la condanna per una ventina di loro con l’accusa di «concorrenza illecita con violenza e minacce». A distanza di qualche tempo hanno ripreso possesso del loro territorio di caccia. E se qualcuno osa chiedergli le credenziali lo minacciano brutalmente: te bruso la casa. Concorrenza e monopoli sono due parole chiave nella vicenda del Mose. Tra i corruttori che spartivano appalti miliardari e la gang dei truffatori violenti c’è un’affinità genetica, un istinto contra legem. Tutti, dagli alti dirigenti dello Stato ai piccoli delinquenti, sempre e comunque al di fuori delle regole.
Il Sole 24 Ore – 14 giugno 2014