Welfare, l’intervento. Ecco i (veri) conti per trovare i fondi. Per previdenza, assistenza e sanità non bastano contributi e imposte dirette
di Alberto Brambilla*. Tra annunci e dibattiti il «piatto forte» della prossima legge di Stabilità pare incentrarsi sull’aumento delle pensioni cosiddette minime che riguardano una bella fetta dell’elettorato pari a circa 8 milioni di pensionati, cioè quasi il 52% del totale.
Gli importi medi di queste pensioni vanno dai 448 euro al mese per le pensioni e gli assegni sociali che riguardano oltre 826 mila connazionali (che in 66 anni di vita non hanno mai pagato contributi e tasse) ai 502 euro al mese delle oltre 3,6 milioni di pensionati integrati al minimo o beneficiari di maggiorazioni sociali, quattordicesima mensilità e così via (anche loro in 66 anni di vita hanno versato poco tra tasse e contributi), agli oltre 800 mila beneficiari della «pensione da 1 milione al mese» introdotta nel 2002 dal governo Berlusconi che oggi vale 638 euro al mese sempre per 13 mensilità. Su tutte queste prestazioni non si pagano tasse, e quindi sono importi netti per i pensionati beneficiari.
E infatti se andiamo a vedere le dichiarazioni Irpef relative ai redditi del 2014 scopriamo che il 46% dei pensionati paga poco o niente mentre il 35,54% dei pensionati paga oltre il 70% di tutta l’Irpef versata (dopo aver pagato contributi e tasse per l’intera vita lavorativa).
Almeno tra i pensionati siamo in presenza di una tra le maggiori redistribuzioni sociali del Paese. Le aumentiamo ancora? Ad averci i soldi certamente sì — per esempio lavorando più sulla quattordicesima mensilità che sull’importo della pensione stessa, ma sottoponendo il tutto a una «prova dei mezzi» patrimoniale e reddituale molto seria — ma se per dare quattrini a queste categorie dobbiamo fare altro debito a carico delle «povere» giovani generazioni che hanno già sul gobbo un debito pubblico «monstre» (2.343 miliardi di euro pari al 133% del Pil), certamente no! Ma, domanda, quanto ci costa tutto questo welfare tra pensioni, assistenza e sanità? Su un totale di 826 miliardi di spesa totale dello Stato nel 2014 la spesa sociale è stata pari a 439 miliardi (oltre il 53% del totale spesa pubblica).
E come si finanzia? Nel grafico in tabella (anteprima per il Corriere del Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale) abbiamo inserito nel primo blocco la spesa suddivisa per funzioni e nel secondo il finanziamento. Risultato: a parte l’Inail che presenta addirittura un avanzo di bilancio, per pagare la spesa sociale occorrono tutti i contributi previdenziali (ovvio), tutta l’Irpef addizionali comprese, tutta l’Irap, tutta l’Ires, tutta l’Isos (imposta sostitutiva) e all’appello mancano ancora quasi 16 miliardi.
Per far funzionare l’Italia restano solo le imposte indirette. Forse se pensiamo alle giovani generazioni ce n’è abbastanza per rimandare gli aumenti a tempi migliori anche perché siamo in presenza rispetto alla spesa sanitaria e assistenziale di un’altra gigantesca redistribuzione. Infatti per l’Irpef totale vale quanto detto prima per i pensionati e cioè che il 39% dei cittadini paga l’86% di tutta l’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Per garantire la sanità a circa la metà dei cittadini italiani occorre reperire, a carico del 39% di cittadini paganti oltre 43,3 miliardi. Ma c’è infine un altro problema. Aumentando ancora le pensioni minime o integrate con, ad esempio, i famosi 80 euro, arriviamo a prestazioni prossime ai 600 euro netti al mese. Un livello tra pensioni assistenziali e previdenziali mai raggiunto in passato e su cui riflettere.
La domanda che ci poniamo è perché mai artigiani, commercianti, professionisti, collaboratori, imprenditori agricoli e non (tutte categorie che non hanno la trattenuta automatica in busta paga) ma anche lavoratori dipendenti sui lavori accessori, dovrebbero pagare i contributi sociali (e quindi le tasse) se tanto alla fine i 600 euro netti li prenderebbero comunque? Forse è meglio che il governo indirizzi tutta la «flessibilità» di cui dispone per ridurre le tasse sulle imprese al fine di migliorarne la competitività; reintroduca gli ammortamenti anticipati e i super ammortamenti aumentando i beni spesabili nell’anno a ben più dei 516 euro fermi da prima dell’introduzione dell’euro; riporti il leasing strumentale ed immobiliare a livelli precedenti al 2002 (1, 3, 7 anni).
Infine aumenti i livelli di welfare aziendale: buoni pasto oltre i 5,19 euro o 7 se elettronici, buoni trasporti, premi di produttività per tutti anche per le piccole imprese. Solo così si creeranno più posti di lavoro e, con il welfare aziendale, anche maggiori stipendi.
Infatti da 5,19 a 10 euro di buono pasto e 8 euro di buono trasporto al giorno fanno più di 270 euro netti al mese di aumento di stipendio; una bella spinta ai consumi, quasi tutti interni! C’è di che riflettere.
* Docente e presidente Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali
Il Corriere della Sera – 7 settembre 2016