Professor Remuzzi, alcuni politici si chiedono come mai si parla solo di vaccini e non di cure.
«La ragione mi sembra evidente. I vaccini rappresentano l’unica soluzione solida ed efficace per prevenire la malattia. Sono sicuri, fatti a tempo di record anche grazie ai governi che hanno fatto grandi investimenti a fondo perduto. La loro efficacia cala nel tempo, ma questo è normale. Serve un ciclo completo, che richiede almeno tre dosi».
Quindi non esiste una alternativa ai vaccini?
«Non esiste una prevenzione diversa e migliore di quella fornita dai vaccini. Le cure riguardano le persone che si ammalano. E se ne parla poco solo perché sono molto in divenire. Non ci sono certezze, insomma».
Neppure per i pazienti più colpiti dal virus?
«All’inizio della pandemia ci si concentrò soprattutto su di loro. Funzionano solo tre rimedi. Il cortisone, con certe dosi e in certi momenti, e la controindicazione che se sbagli fai peggio. Poi due anticorpi monoclonali che vanno somministrati insieme, e hanno comunque efficacia parziale. E un farmaco che inibisce una delle citochine responsabili dell’infiammazione, sul quale i dati sono ancora molto incerti. Più di questo, per i malati gravi non c’è. Al momento non esiste una cura per la fase acuta della malattia».
Come opporsi al virus prima che il malato vada in ospedale?
«Non bisogna perdere tempo durante i dieci giorni iniziali, quando il virus si replica. La prima cosa da fare è bloccare il suo ingresso nell’organismo. Sappiamo che entra tramite l’ormai famoso recettore Ace 2. Alcuni medici hanno pensato di somministrare ad alcuni volontari dell’Ace 2 solubile, in modo da salvaguardare quello che si trova sulle cellule. Un modo per ingannare il virus, a farla semplice. Sembra non avere effetti negativi su cuore, reni e pressione».
Cosa aspettiamo?
«I segnali incoraggianti non bastano. Servono risultati certificati su campioni molto ampi di pazienti. Negli ultimi mesi, spesso all’entusiasmo iniziale è seguito un forte raffreddamento. La medicina evolve, non c’è contraddizione. Per questo sbaglia chi invoca la prima cura di cui sente parlare».
Esistono altre strade per impedire al virus di entrare?
«C’è il tentativo di inibire l’enzima che abilita la proteina Spike del Covid a raggiungere le cellule. Un farmaco semplicissimo, la Bromexina, uno sciroppo per la tosse, sembra fornire una protezione importante e potrebbe anche essere preso come profilassi. Anche qui, ci sono cinque studi in corso. Aspettiamo».
Che fine hanno fatto gli antivirali?
«Quelli che funzionavano con l’Hiv non funzionano per il Covid. Quanto al famoso Remdesivir con il quale è stato trattato Donald Trump, in questo momento ci sono un numero ormai importante di studi clinici che dimostrano come la sua efficacia contro il Covid si limiti alla riduzione della carica virale nel naso e nella bocca. Allo stato attuale, chiamarla cura, sarebbe eccessivo».
L’antivirale prodotto dalla Merck che aveva fatto gridare di gioia Anthony Fauci?
«All’inizio riduceva l’ospedalizzazione e la morte da Covid del 50 per cento: da lì il legittimo entusiasmo. Quando sono stati eseguiti trial su numeri più importanti di pazienti, si è visto che la percentuale cala al trenta per cento, purché venga somministrato entro cinque giorni dall’inizio dei sintomi. Meglio di niente. Ma non è la soluzione del problema».
A che punto siamo invece con gli antivirali dell’influenza e quelli dell’epatite C?
«Il farmaco più importante della prima categoria è il Favipiravir, che ha dimostrato di bloccare in modo importante l’infezione da Covid nelle cellule in coltura: ma quando è stato provato sull’uomo, si è visto che la riduzione della carica virale era molto attenuata. Adesso dodici studi clinici in corso, vedremo. Lo stesso vale per la Ribavirina, usata contro l’epatite C. Da sola non funzionava tanto. Adesso stanno provando a combinarla con due antivirali dell’Hiv. Vedremo i risultati».
Si ricorda la campagna a favore del plasma iperimmune?
«Non funziona, e lo si sapeva da subito. Adesso lo dice anche lo studio promosso dalla nostra Aifa. Risultati molto negativi. Si possono avere occasionali risposte favorevoli in presenza di un donatore con alto titolo di anticorpi neutralizzanti e un paziente senza risposte immunitarie per via di un trapianto o perché affetto da tumore o leucemia. Ma certo non si applica su larga scala».
Esistono altre possibili cure che fanno ben sperare?
«La Vanderbilt University ha messo a punto un anticorpo che viene descritto come molto potente. Testato in laboratorio, funziona bene. L’istituto di ricerca sulle malattie per i bambini di Seattle e la Fondazione Rockfeller stanno lavorando sui piccoli anticorpi monoclonali presenti nei Lama e nei cammelli. Questi animali si infettano e non si ammalano, e producono anticorpi fortissimi, capaci di paralizzare il virus. Con gli animali funziona. Ma da qui all’uomo, il passo è lungo. Sono tutte promesse, da mantenere».
Gli antiinfiammatori rappresentano al momento il campo più praticabile?
«Se non si pretende di avere la cura definitiva, sì. Noi dell’Istituto Mario Negri stiamo lavorando con l’Aifa per mettere a punto un protocollo che usando farmaci molto semplici consenta di inibire l’effetto dell’infiammazione nei primi dieci giorni dal contagio. Uno studio proveniente dall’India sull’Indometacina, eseguito su gruppi di differenti fasce d’età, dimostra come questo antinfiammatorio non steroideo sia capace di debellare o ridurre di gravità la parte respiratoria della malattia. Anche qui occorrono conferme».
La sensazione che non ci sia molto è sbagliata?
«Abbiamo i vaccini, ed è tantissimo. Un primo, straordinario risultato è stato raggiunto. Per la Cura, quella con la maiuscola, ci vuole ancora un po’ di tempo, e molta pazienza».
Il Corriere della Sera