Siamo il Paese europeo con il maggior numero di prodotti a Denominazione ma non sappiamo come venderli. Ci sarebbero decine di milioni di consumatori nel mondo desiderosi di assaporare le nostre eccellenze agroalimentari, ma non abbiamo i canali commerciali, specie sui mercati lontani, attraverso i quali farglieli arrivare.
Per i nostri 271 prodotti Dop e Igp e 523 vini Docg, Doc e Igt (per un valore di 13,5 miliardi) servono accordi con catene di supermercati medie e grandi e una dimensione delle nostre aziende in grado di soddisfare le loro richieste. Probabilmente anche per questo l’export agroalimentare è rimasto dietro a Germania, Spagna e Francia nonostante negli ultimi anni sia balzato del 70 per cento.
Considerato l’enorme potenziale, il Governo ha deciso di investire sulla promozione del cibo e del vino verso quel traguardo di 50 miliardi di euro di esportazioni nel 2020: un obiettivo certo ambizioso, ma alla portata delle nostre imprese.
Una conferma arriva anche dai dati export del primo semestre, un massimo storico: circa 18 miliardi di euro, +8 per cento. Un dato in linea con la stima dei 36 miliardi per il 2015. Ma l’obiettivo dei 50 miliardi è ancora lontano. Come avvicinarsi?
«Negli ultimi anni – sostiene il vice ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda – il made in Italy ha fatto passi da gigante anche se troppo spesso abbiamo giocato partite individuali. C’è ancora un grandissimo potenziale, vogliamo arrivare dove c’è richiesta di Made in Italy e dove troppo spesso la risposta è un prodotto italian sounding. Per questo abbiamo deciso di andare all’attacco, essere presenti con i prodotti e un’attività di comunicazione coordinata e caratterizzata da un segno e una strategia unitaria degli attori pubblici e privati sulla promozione dell’agroalimentare. E con risorse adeguate».
Il Piano straordinario per l’export agroalimentare, su cui il governo ha allocato circa 70 milioni di euro, è concentrato in particolare su Usa e Canada e poggia su due pilastri: una grande campagna media contro l’Italian sounding e un lavoro capillare di raccordo con la grande distribuzione americana. La prova generale si è svolta lo scorso giugno a Chicago, in occasione della fiera Fmi Connect: insieme imprese, fiere di settore (Tuttofood, Cibus e Vinitaly), Federalimentare e i consorzi.
«Gli Stati Uniti assorbono intorno ai 3 miliardi di alimentare made in Italy – interviene Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare – a fronte però di 27 miliardi di prodotti che evocano l’italianità. I margini di miglioramento sono notevoli, ma è indispensabile che il consumatore americano trovi il prodotto originale in commercio. Altrimenti è inutile».
Per il settore agroalimentare la strategia puntata sugli Usa prevede di concentrare le risorse su quattro aree chiave degli Usa che hanno margini di crescita maggiori oppure la possibilità di consolidare la presenza dei prodotti italiani. Sono stati scelti Texas, Illinois, California e New York e per ciascuno è stato concluso un accordo con retailer di riferimento: rispettivamente Heb, Mariano’s, Kroger e Price Chopper.
Da un sondaggio condotto in questi quattro Stati è risultato che una quota variabile dal 47% (in Texas) al 73% (New York) ritiene che la provenienza sia molto importante. E la maggior parte degli estimatori del prodotto originale sarebbe disposta a pagare un premio.
«Se lavoriamo bene – osserva Calenda – potremmo avere una crescita lineare del nostro export in un mercato gigantesco» e che cresce ancora a doppia cifra: nel primo semestre dell’anno l’export è balzato del 29% a 1,7 miliardi di euro. Il primo round di promozioni scelto da Calenda, ciascuna della durata di 2-3 settimane, si svolgerà tra fine settembre e ottobre 2015 con l’intento di proseguire la collaborazione con i 4 partner anche nel 2016. Complessivamente l’investimento promozionale è di circa 10 milioni di euro con il coinvolgimento di circa 3.100 punti vendita: Kroger opererà a livello nazionale con 2.626 punti vendita, Mariano’s con 35, Heb con 300 punti e Price Chopper con 135.
«Le promozioni – aggiunge Calenda – prevedono acquisti aggiunti da parte delle catene selezionate per circa 110 milioni di dollari e l’inserimento di 210 nuovi fornitori italiani». Le promozioni prevedono attività in-store (allestimento aree dedicate, decorazioni, animazione, degustazioni, distribuzione materiale, premi), attività online (email blasting, video, informazioni sui prodotti italiani, ecc.) e attività di formazione del personale di vendita.
Le promozioni negli Usa sono state precedute, e verranno accompagnate nel corso del 2016, da numerose missioni di acquisto in Italia dei buyer delle catene selezionate con visite alle principali fiere italiane di settore, distretti produttivi e aziende singole.
Il progetto governativo sembra aver convinto anche un gigante come La Doria, società campana delle conserve vegetali con 631 milioni di fatturato nel 2014. «Il progetto è molto interessante – annuncia Antonio Ferraioli, amministratore delegato di La Doria – perchè è molto diverso da una fiera classica, come il Fancy food di New York e San Francisco. Ci è sfuggita la partecipazione a Chicago ma saremo sicuramente presenti alla prossima tappa, in California».
Ma le capacità produttive delle nostre Pmi sono adeguate alle esigenze delle catene americane? «Se l’azienda vende di più – conclude Calenda – poi adegua anche la produzione ai nuovi volumi. Prima non lo farebbero mai». Scordamaglia sottolinea che «le imprese saranno costrette ad adeguare i volumi: altrimenti alla prima rottura di stock si chiude il rapporto commerciale».
E dopo gli Usa? «Punteremo sul Giappone e sulla Cina – risponde Calenda – dove però è tutto più complesso per questioni di struttura del mercato e della distribuzione, ma dobbiamo farlo».
Il Sole 24 Ore – 13 agosto 2015