Il codice civile di Napoleone, del 1804, era composto da poco più di 100 mila parole. Le sei manovre economiche approvate dal governo Monti nel 2012 arrivano a 300 mila. Il primo è passato alla storia come esempio di chiarezza normativa. La legislazione del governo tecnico segna invece il punto più basso nella qualità delle leggi: norme scritte in modo incomprensibile, modificate pochi giorni dopo l’approvazione, zeppe di strafalcioni.
Un esempio, l’ultimo comma della legge di stabilità: nel testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, in 10 righe si contano cinque refusi. E che dire della chiarezza di questo comma: «Per il Comune di cui al comma 3.1 non è dovuta la quota di imposta riservata allo Stato sugli immobili di proprietà dei Comuni di cui all’articolo 13, comma 11, secondo periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, così come modificato dall’articolo 4, comma 5, lettera g), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, e non si applica il comma 17, del medesimo articolo». Non è questione di fare i puristi del diritto. Una legislazione caotica, ridondante, contraddittoria ha una sua funzione inconfessata. Si possono sbandierare le riforme che attirano il consenso, senza applicarle. E viceversa. Infatti: le norme fiscali sono applicate in modo, tutto sommato, rigoroso. Grazie alla manutenzione dell’Agenzia delle Entrate con le sue circolari, risoluzioni, interpretazioni ecc. oltre che all’accertamento delle infrazioni tributarie.
Le norme sui tagli alle spese pubbliche, o quelle che prevedono pesanti adempimenti in carico alle pubbliche amministrazioni, finiscono, nove volte su dieci, per essere dimenticate in qualche cassetto: mancherà un decreto attuativo, interverrà una sentenza della Cassazione a dire che quel taglio è illegittimo, oppure ci penserà il legislatore, con una norma incomprensibile, a disporre una proroga o cancellare il comma indesiderato. Qualche esempio. La spending review aveva previsto che entro il 31 dicembre sarebbe stato emanato il Dpcm che avrebbe dovuto fissare la «giusta percentuale» di dotazioni organiche in rapporto alla popolazione per gli enti locali. Ovviamente il Dpcm non è stato emanato e a quanto risulta se ne sono perse le tracce.
La stessa legge aveva previsto 500 milioni di tagli ai Comuni per il 2012 sotto forma di riduzioni dei consumi intermedi. Ma alla fine sono stati sterilizzati. Si prevedeva anche l’obbligo per i Comuni di far compilare al Ministero dell’Economia le buste paga dei dipendenti pubblici. I Comuni che hanno aderito sono stati in un anno 67. Su 8.100. E chi non si ricorda del taglio delle Province? Se ne è discusso per un anno e poi il parlamento ha affossato tutto. E la riduzione degli stipendi dei parlamentari? Ancora: il decreto Crescita obbliga le pubbliche amministrazioni a divulgare sul proprio sito tutte le erogazioni (come stipendi, consulenze e contributi) di importo superiore a mille euro. Finora, gli enti hanno fatto orecchie da mercante. E il provvedimento sui costi standard della sanità, il cuore del federalismo? Non pervenuto. La razionalizzazione della spesa sanitaria pub aspettare. Insomma, è sempre più evidente che si è creata una distinzione tra norme di serie A, destinate a entrare in vigore e a produrre effetto, e norme di serie B, approvate per farle salire sulla passerella e scendere subito dopo, come una modella. (riproduzione riservata)
Mf – 15 gennaio 2013