Due imprenditori e la morte. Uno che se la dà. L’altro che ne assume il volto. Uno che si autopunisce per la propria sconfitta portandola con se stesso e gettandone una parte addosso a chi resta.
L’altro che il suo possibile fallimento lo vuole far pagare al direttore della sua banca: per lui, la pietra angolare del male, la calamita della rabbia. Entrambe storie padovane, ma infilabili in quel «non luogo» – diventato più afferrabile dei «luoghi» – che è la metropoli diffusa di una terra dove la geografia spesso non è più il mare o la montagna o l’arte ma l’orizzonte di una zona industriale, un capannone, un paese- fabbrica. Due storie prodotte da una casualità che avrebbe potuto posarsi ovunque perchè in Veneto ovunque c’è stato un uomo che per i suoi fallimenti si è tolto la vita o è arrivato a pensare, anche se nessuno l’ha mai fatto fino a ieri, di potersi fare giustizia al di là del bene e del male, della legge degli uomini e di quella, per chi ci crede e la teme, di Dio.
Due storie lontanissime per l’«etica» dell’epilogo ma che ribollono nella stessa disperata crisi, nella partita doppia dei soldi e di quella spesso troppo singola e sola della vita. Un imprenditore, Giulio Mazzaro, che sceglie la sua azienda di componenti metallici per mobili finita in cassaintegrazione per tirare l’ultimo bilancio con una corda anzichè con un software e azzera tutti i conti. L’altro, Luciano Franceschi, un venetista che la sera prima aveva postato su Facebook la voglia di vendetta e il presagio del dramma. Che sale le scale della direzione di un istituto di credito e affronta a mano armata colui che ritiene essere il suo nemico o comunque il simbolo di ciò che combatte. Spara all’uomo e al simbolo, in un gesto «politico » che sa di brigatismo bianco, radicalizzazione di un estremismo di centro che quindici anni fa aveva imbracciato i fucili e i carrarmati di cartone dei Serenissimi e poi, passando attraverso il ribellismo della violenza «omeopatica » nei confronti della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate, è diventato il braccio armato di un anarchismo violento. E che fa dire all’imprenditore che ha ferito il direttore di banca ciò che rivendicarono i militanti, appunto, del brigatismo rosso: «Io non riconosco lo Stato italiano ». Una sorta di «prigioniero politico» che non ha radici in utopie anti-sistemiche ma appartiene alla dimensione della produzione e del fare. Ordini, fatturati, profitti, tasse. Nessuno, finora, aveva mai sparato. E se è perfino ovvia la condanna di un gesto che non porta riscatto ma solo il presagio orrorifico del conflitto sociale, non meno scontata – perchè realmente avvertita – è la sensazione che molti, pur condannando, abbiano quasi solidarizzato con chi ha punito il soggetto più odiato del sistema al tempo di una crisi da lacrime e sangue: le banche.
Una pulsione da registrare, appunto, senza ipocrisie, ma ovviamente non condivisibile anche se rintracciabile nella rabbiosa disponibilità del proprio animo. Ora, tutto potremmo fare, ma non certo lisciare il pelo alle pance nel cui brontolio diventa accettabile ogni fuga e ogni azzardo. Né sul piano individuale né, tantomeno, su quello politico.
Alessandro Russello – Corriere del Veneto – 12 febbraio 2013