Lega e 5 Stelle protestano ed escono, Sel resta. In Aula raccolta di firme: violate le regole. Si era partiti dalla conta dei feriti, dopo i tumulti di giovedì notte. Si è arrivati al «disgelo», probabilmente definitivo. Tanto che, adesso, il premier Matteo Renzi sembra uno di quei ciclisti che, finita la scalata, si prepara ad affrontare la discesa: «Le riforme stanno andando avanti, sono molto soddisfatto. La settimana prossima sarà quella decisiva».
Approvati gli articoli uno e due della riforma Boschi (quelli fondamentali, su composizione e funzioni del Senato), «cancellato» il bicameralismo perfetto, archiviata l’eleggibilità dei senatori, il governo può permettersi di trattare. La ministra, dopo che le opposizioni avevano lasciato l’aula, in una sorta di «Aventino», incontra la «rivale» Loredana De Petris di Sel, poi la Lega. Con Cinque Stelle il tentativo va a vuoto. Secondo i «grillini» perché «la Boschi ci ha chiamato all’ultimo secondo», mentre chi era con la ministra racconta un’altra versione: «Li ha chiamati davanti a me, non hanno risposto». Sia come sia, il risultato finale è che Sel rientra in aula, i leghisti restano fieramente fuori, i pentastellati fanno avanti e indietro («non partecipiamo più ai lavori, ma ci saremo nelle questioni di sostanza»).
Il terreno, in un modo o nell’altro, è «sminato». Nichi Vendola twitta : «Dopo giorni di blindatura ed ostruzionismo il governo apre una finestra…». Da palazzo Chigi, anche Renzi usa parole più morbide: «Penso che l’apertura da parte della maggioranza istituzionale, Forza Italia compresa, e dal governo possa essere apprezzata come noi apprezziamo il tono di alcune opposizioni».
Il più, del resto, è fatto. Ieri, votando l’articolo due (194 sì, 26 no, 8 astenuti), è passato il Senato «a 100», con 95 membri scelti dai consigli regionali e 5 di nomina presidenziale. Restano, a questo punto, le altre questioni, che interessano Sel: referendum, leggi di iniziativa popolare, immunità. Sulle prime due questioni, il governo è disposto a venire incontro ai vendoliani, diminuendo le firme necessarie per gli istituti di democrazia diretta (fissate, ora, rispettivamente a 800 mila e 250 mila). Sull’immunità sarà più dura.
E poi c’è il nodo dell’Italicum, vero «convitato di pietra» delle riforme: sulla legge elettorale, e in particolare su preferenze e soglie (sia di sbarramento per i partiti, sia per ottenere il premio di maggioranza), si giocherà la partita più delicata. Martedì, vertice tra Renzi e Berlusconi per raggiungere un’intesa definitiva. In ogni caso, per ora, Renzi segna un punto. La riforma è ormai «incardinata», l’impianto base è passato (tanto che decadranno autonomamente tutti gli emendamenti sul Senato elettivo contenuti negli articoli da 3 a 40) e il premier promette: «L’ultima parola l’avranno comunque i cittadini. Tanto che la maggioranza, pur avendo la maggioranza dei due terzi, è disposta a far mancare qualche voto per andare al referendum consultivo». Renzi insiste: «Siamo disposti a dialogare con tutti, ma le riforme vanno fatte. Basta con la logica dei no, noi siamo quelli del si può fare».
Non che siano finite, come per magia, tutte le polemiche. Beppe Grillo attacca: «La gente non ha pane, altro che riforme. Grasso vergogna». La Lega resterà fino alle fine fuori dall’aula. E cento senatori (primi firmatari Augusto Minzolini di Fi, Mario Mauro dei Popolari, la De Petris, i leghisti guidati da Gian Marco Centinaio, i «grillini») denunciano via lettera «la violazione delle regole parlamentari». Due i bersagli: Renzi, ma anche lo stesso Grasso. «I lavori — scrivono Minzolini e gli altri — di quella che dovrebbe essere una Costituente hanno perso la sensibilità istituzionale, il rispetto e la dignità alla base di un compito così solenne». E ancora: «La conduzione così incerta e contraddittoria dei lavori d’aula, le continue ingerenze del governo, il ripetersi di esternazioni, se non di provocazioni, che il premier continua a manifestare attraverso i media, rischiano di compromettere irrimediabilmente la possibilità che la democrazia sia garantita».
Critiche figlie del trascorso di questi giorni, ma anche degli episodi del mattino. Quando Grasso, aprendo la seduta, fa riferimento ai tumulti dell’altra sera: «Le condotte dei senatori della Lega sono inaccettabili ed offensive. Il consiglio di presidenza le ha stigmatizzate e provvederà a comminare le più gravi sanzioni». E ancora: «Ho tollerato fin troppo, basta insulti o allusioni alla conduzione dell’aula». Il presidente, per due ore, applica il «pugno di ferro» visto che «il guanto di velluto non ha funzionato». Le opposizioni escono dall’aula, Grasso le incontra e le riporta dentro. L’altro snodo è su un emendamento presentato da Massimo Mucchetti (Pd). Grasso prima concede il voto segreto «parziale» (si sarebbe trasformato in una nuova «trappola» per il governo, a rischio di andare di nuovo sotto), poi — sentiti gli uffici — decide per quello palese. Sono le schermaglie finali, però. Ieri, dopo l’approvazione dell’articolo due, si è passati al decreto sulle carceri. Mentre, sulle riforme, ci si prende una pausa: oggi, dopo la fiducia sul decreto, si va a casa. E domenica tutti al mare. Da lunedì si riparte. Ma, ormai, salvo colpi di scena, si va in discesa.
Ernesto Menicucci – Il Corriere della Sera – 2 agosto 2014