I metodi attualmente in uso nella Comunità europea per scoprire la presenza di eventuali sostanze chimiche illecite nelle carni bovine non sono ottimali, e andrebbero integrati con nuove tecniche di analisi. È questa una delle conclusioni di un parere scientifico sull’ispezione delle carni bovine pubblicato poche settimane fa dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). Il problema è noto da molti anni. Alcune sostanze, come gli ormoni anabolizzanti usati per “gonfiare” gli animali e rendere la carne più tenera, non dovrebbero essere presenti nelle carni. Altre come farmaci, pesticidi e metalli pesanti, possono essere presenti solo entro certi limiti. Per monitorare la situazione negli allevamenti, i paesi della Comunità europea attuano ogni anno un “Piano nazionale residui” che prevede un certo numero di analisi.
Il Piano, definito sulla base di precise direttive comunitarie, stabilisce quali sostanze cercare e con quale metodo. I dati raccolti da queste indagini sono sempre molto tranquillizzanti.Secondo quanto riferito dal parere dell’Efsa, solo lo 0,25% di tutti i campioni (uno su 400) analizzati in Europa tra il 2005 e il 2010 risulta “non conforme”. Le anomalie riguardano in particolare la presenza di livelli eccessivi di contaminanti ambientali. Il quadro italiano è ancora più rassicurant visto che secondoi risultati del Piano nazionale residui 2012: i campioni irregolari sono stati lo 0,15% del totale. Anche in questo caso le non conformità hanno riguardato soprattutto residui di farmaci e di contaminanti ambientali, mentre sono risultate minime le positività relative alle sostanze anabolizzanti.
Le notizie sembrerebbero buone, ma c’è il forte sospetto che le irregolarità siano sottostimate. Il sistema secondo gli esperti Efsa è poco flessibile, perchè stabilisce a priori cosa deve essere cercato senza tener conto che la situazionesul campi è in continuo cambiamento. Può dunque accadere che non vengano cercate sostanze ritenute poco importanti, diventate per qualche ragione protagoniste sul mercato illegale. Il documento punta il dito contro due categorie di sostanze. Da un lato troviamo diossine, policlorobifenili simili alle diossine (DL-PCBs) e contaminanti ambientali come i ritardanti di fiamma, che tendono ad accumularsi nella catena alimentare e quindi anche nelle carni ritenuti rischiosi per la salute. Dall’altro ci sono elementi come: rame, selenio e zinco usati come integratori per l’alimentazione dei bovini che, se somministrati in eccesso, potrebbero accumularsi nel fegato. Il documento dell’Autorità per la sicurezza alimentare eutopea invita a «includere anche queste sostanze nei Piani nazionali residui, magari inizialmente in via temporanea». In generale raccomanda di puntare su sistemi di ispezione delle carni che, per quanto riguarda i residui chimici, siano «meno prescrittivi, più basati sul rischio reale e più flessibili».
L’altro aspetto controverso riguarda gli anabolizzanti. Come Il Fatto Alimentare ha raccontato più volte, gli esami ufficiali eseguiti oggi per individuare eventuali residui di promotori della crescita sono di tipo chimico e vengono eseguiti su campioni di sangue o di urina degli animali. Questi test sono estremamente precisi e permettono di dare un “nome e cognome” alle molecole che indicanio un trattamento illecito anabolizzante, ma presentano limiti piuttosto vistosi. Anzitutto sono molto costosi, laboriosi e funzionano solo se il prelievo viene effettuato poco dopo la somministrazione all’animale della sostanza vietata. Già dopo un paio di giorni dal trattamento non si riesce ad identificarla. In secondo luogo i test funzionano solo per particolari concentrazioni della sostanza cercata: al di sotto di una certa soglia non “vedono” nulla. Di fronte a questa situazione gli allevatori “furbi” somministrano agli animali non un singolo anabolizzante in grandequantità, ma un cocktail di sostanze diverse, ciascuna a basso dosaggio ottenendo lo stesso effetto. Se poi il sistema prevede la ricerca solo di alcune sostanze, stabilite dal Piano residui, basta usarne altre di nuova sintesi, che non sono incluse nella lista dei “ricercati”per sfuggire ai controlli.
La sensazione sempre più diffusa tra gli addetti ai lavori è che questi metodi comportino un sacco di lavoro e un sacco di spese ma servano a poco. Il che non è un gran risultato soprattuto in un’epoca di spending review. Per questo motivo si stanno facendo strada altri metodi analitici, per ora non riconosciuti a livello ufficiale, ma decisamente interessanti per quanto riguarda la capacità di individuare trattamenti fraudolenti con anabolizzanti. Sono i cosiddetti metodi biologici, come l’esame istologico dei tessuti, prelevati dopo la morte dell’animale e osservati al microscopio, o i test che prevedono l’analisi del corredo di geni (genomica), di proteine (proteomica) o di metaboliti vari (metabolomica) dell’animale. Tutti si basano sull’assunto che ogni trattamento anabolizzante lasci un “segno biologico” nei tessuti dell’animale, oppure nei suoi geni o nelle sue molecol. La presenza di questo “segno” indica chiaramente che il bovino è venuto in contatto con sostanze da evitare, anche se non è in grado di identificare con precisione la molecola.
Quando vengono utilizzate queste tecniche i risultati sono molto diversi rispetto ai dati estremamente rassicuranti che emergono dai vari piani nazionali. Gli esperti dell’Efsa, per esempio, citano due studi secondo i quali anomalie istologiche imputabili a trattamenti con ormoni anabolizzanti si troverebbero in un numero piuttosto elevato di campioni: dal 5 al 15% in un caso e dall’11,7% al 31,9% nell’altro. Secondo quanto ci era stato riferito dal Centro di referenza nazionale per le indagini biologiche sugli anabolizzanti animali, in Italia il 15% dei campioni esaminati con metodo istologico mostrerebbe non conformità.
In Italia sono stati individuati 968 casi “sospetti”, ma non sappiamo quanti sono stati in totale i campioni analizzati. L’Italia da anni affianca al Piano nazionale residui un monitoraggio parallelo con esami istologici, ma il Ministero non diffonde i dati
Il semplice fatto che si disponga di questi dati e che l’Efsa si preoccupi di rilasciare un parere scientifico sulla questione, indica una particolare attenzione al problema e la volontà di lavorare seriamente per risolverlo. L’Italia è tra i paesi più attivi in questo senso, tanto che da anni affianca al tradizionale Piano nazionale residui un monitoraggio parallelo con esami di tipo istologico. È stato fatto anche nel 2012, ma purtroppo i dati relativi allo screening istologico non sono disponibili. O meglio: sappiamo che dallo screening sono emersi 968 campioni giudicati “sospetti”, ma non sappiamo quanti sono stati in totale i campioni analizzati e che tipo di anomalie sono state riscontrate. Abbiamo più volte chiesto al Ministero della salute di farci visionare i dati, ma non abbiamo ottenuto risposta.
Certo, l’ulteriore indagine chimica eseguita sui campioni sospetti non ha rivelato irregolarità, ma questo risultato dimostra l’inutilità delle analisi chimiche per via dei limiti di cui abbiamo parlato. Qualcosa, comunque, si muove, anche se bisognerà probabilmente attendere un vero cambio di mentalità per rendere i nuovi metodi ufficiali – e dunque validi dal punto di vista legale. Per il momento a dispetto dei dati ufficiali la situazione non è certo tranquillizzante. Le catene di supemercati conoscono il problema e per questo motivo le più attente richiedono agli allevatori certificati di analisi basati su prove biologiche, le sole in grado di evidenziare i trattamenti illegali.
Valentina Murelli – Il Fatto alimentare – 2 gennaio 2014